Un grande pericolo
CORRIERE DELLA SERA
7 maggio 2001
di Vittorio Messori
Un grande pericolo
La misura è ormai colma: questo Papa sta esagerando. E il viaggio di questi giorni lo conferma. Giovanni Paolo II travisa il passato della Chiesa, rischia di esporla ad umiliazioni, ossequia i suoi persecutori, intende l'ecumenismo come un sincretismo, dove una religione sembra valere l'altra. Anche se, finora, non hanno osato uscire allo scoperto, sono questi gli umori, le frasi che si ascoltano in una parte della Curia romana, in sintonia con una rete di vescovi in cura d'anime. Solo lo schematismo ideologico spinge ancora presunti «esperti di cose vaticane» a presentare Giovanni Paolo II come un alfiere della «destra restauratrice» e un avversario della «sinistra progressista». In realtà, chi conosce l'attuale situazione ecclesiale sa che, da tempo, è esattamente il contrario. Non ci sono più soltanto le schiere lefebvriane che lo accusano di modernismo, di eresia, di diffamazione blasfema della storia della Chiesa. Tra Congregazioni, Segretariati, Istituti della macchina cattolica crescono disagi e sospetti. Il cahier de doléances, già nutrito, si riempie ogni giorno di nuovi capi d'accusa. Non è un mistero che, quando Giovanni Paolo II parlò, in un concistoro, del suo desiderio di chiedere perdono per le «colpe» dei suoi predecessori, la maggioranza dei cardinali respinse l'idea. Il Papa, allora, andò avanti da solo: ma, al compiacimento dei «progressisti», si accompagnò il silenzio ostile di vasti settori ecclesiali, anche non tradizionalisti, ma preoccupati di sa lvaguardare verità e giustizia. Le due virtù, cioè, che sarebbero state violate - una volta di più - nelle nuove, recentissime scuse agli ortodossi per il sacco di Costantinopoli del 13 aprile 1204. In effetti, i motivi di perplessità non mancano, pe r chi sappia come andarono le cose. I baroni in partenza per la Terra Santa erano bellicosi ma squattrinati. Venezia offrì le sue galee per la traversata, in cambio - ovviamente - di una cifra adeguata. Quando la flotta fece scalo a Zara, si scoprì c he i crociati non avevano i soldi per pagare. I veneziani, allora, proposero un accomodamento: se i crociati le avessero conquistato la città dalmata, erettasi a libero comune, avrebbero condonato il debito. Detto fatto: Zara fu presa. Quando il Papa , Innocenzo III, lo seppe, andò su tutte le furie: scomunicò i baroni, con una bolla di fuoco per questi cristiani «sedotti da Satana». Che davvero fossero «sedotti», lo dimostra il fatto che accettarono subito l'invito di un basileus di Costantinop oli di aiutarlo a scacciare dal trono un usurpatore. Con gioia dei veneziani (desiderosi di togliere ai bizantini il monopolio commerciale) la flotta fece vela per il Bosforo e anche la capitale bizantina fu conquistata e consegnata, senza danni né sangue, a Isacco II Angelo che la reclamava. Questa volta, però, fu quell'imperatore a truffare i crociati, non rispettando le promesse di generosa ricompensa. Fu così che, inferociti, i baroni riconquistarono la città e la misero orribilmente a sacco. Ancora una volta, Innocenzo II lanciò la scomunica, con invettive di fuoco: «Voi, difensori di Cristo, vi siete bagnati di sangue cristiano... che il castigo di Dio scenda sulle vostre teste». Come si vede, in questa brutta storia, la Chiesa, più che colpevole, fu vittima delle trame veneziane, di quelle interne bizantine, del temperamento ingovernabile delle orde crociate partite da Francia e Germania. Perché, allora (si chiedono molti nel Vaticano stesso), perché chiedere scusa? Ma, al di là dei continui, sconcertanti «vestra culpa» rivolti a morti, sui quali, comunque, il giudizio spetterebbe a Dio solo, molti altri sono i motivi di scontento. «Il Papa - si dice - come cattolico privato può, anzi deve, accettare umiliazioni. Ma, come Papa, non può permettere che la Chiesa sia umiliata». E ciò sarebbe avvenuto, in questo viaggio, nell'accettazione delle condizioni - sgarbate e persecutorie - poste dagli ortodossi per una visita che non volevano. C'è poi il rapporto con i musulma ni, che ha portato un Papa in una moschea costruita distruggendo una basilica cristiana. Si mormora, irritati, contro il suo intervenire su tutto e su tutti, cui si accompagna spesso il silenzio sulle persecuzioni che i cristiani subiscono nei Paesi islamici. Quanto agli ebrei, non è stato certo dimenticato l'intervento di Wojtyla stesso, in contrasto con lo stesso episcopato polacco, per allontanare dai dintorni di Auschwitz un monastero di clausura e poi, per far rimuovere le croci che i fede li vi avevano piantato. Non si dimentica che, a Berlino, il Papa omise di leggere il paragrafo che difendeva il suo predecessore Pio XII dalle accuse per i presunti «silenzi» sull'antisemitismo nazista. Si potrebbe continuare per pagine intere. Sarebbe inutile; anzi, fuorviante. In realtà, i contestatori in nome della Tradizione della Chiesa, possono avere delle ragioni, almeno su alcuni punti. Talvolta la perplessità sembra giustificata. Ma tutto può trovare una spiegazione nella strategia di un uomo che è, al contempo, un realista e un mistico. Partendo, lucidamente, dalla constatazione che valori come l' unità dei cristiani, il dialogo tra le religioni, la pace tra gli uomini hanno mostrato di non progredire con mezzi ordinari, questo papa ha deciso di forzare le cose, di affidarsi al gesto profetico, alla prospettiva utopica, allo slancio del mistico. All'orgoglio del mondo, contrappone l'umiltà, magari anche l'umiliazione della Chiesa. Alla chiusura degli altri, contrappone l'apertura, pur se persino eccessiva, da parte sua. Alla diffidenza risponde con la fiducia, alla grettezza con la generosità. Pronto, persino, a caricare sulle spalle della Chiesa colpe non sue, sperando che una tale magnanimità spinga altri ad ammettere anche le loro, di colpe. La semplicità del Vangelo a fronte della cautela diplomatica. Certo: una strategia rischiosa, che semina sconcerto nella «Catholica» stessa. Uno stile inedito di governo: ma a questo, un simile pontefice «escatologico», nutrito di spiritualità slava, può replicare che sono inediti - per opportunità ma anche per rischi - i tempi di quella barca che guida e della quale dovrà rendere conto.
(Vittorio Messori)