di Vittorio Messori
Negli anni Settanta, sembrava che nella Chiesa non ci fosse cosa più importante che confrontarsi con il marxismo. Come hanno poi mostrato gli eventi, uno degli errori è stato prendere troppo sul serio questa ideologia che, per chi volesse vedere, era già sull'orlo del baratro, mentre a molti cristiani (che l'avevano appena scoperta) sembrava una sorta di primavera, addirittura il futuro del mondo.
Un errore di prospettiva che non ha riguardato soltanto alcune frange, magari contestatrici (chi ha la mia età ricorda, tra gli altri, i "cristiani per il socialismo"), ma che ha coinvolto il vertice stesso della Chiesa: la Ostpolitik di Paolo VI, la politica di dialogo, di accordo, di distensione verso i regimi del "socialismo reale", partiva dalla convinzione che quei despoti avessero dalla loro parte un tempo illimitato.
Dunque, a tutti i costi bisognava accordarsi con essi per creare uno spazio di sopravvivenza alla Chiesa.
Comunque, pure qui - come sempre nella storia - il cristiano non deve dimenticare che la sua è fede in un Dio provvidente, un Dio che fa sì che tutto sia, misteriosamente, a vantaggio della sua Chiesa.
Per quanto possiamo giudicare, funzione della lunga, tragica parentesi del comunismo, con i suoi cento milioni di morti, è stata quella di costringere i cristiani a riscoprire l'aspetto "sociale", "politico" (nel senso più ampio) del messaggio evangelico, aspetto che era stato forse dimenticato, a favore di una religiosità troppo intimista, individualista.
"Alienata", per usare - appunto - un termine caro a Marx, Engels e ai loro seguaci. Anche se personaggi come don Bosco e tanti altri impongono cautela nelle generalizzazioni.
Il comunismo, almeno come potere mondiale, sembra finito, anche se ne resta l'inquinamento in certa cultura o in certe prospettive che contrassegnano la stessa mentalità popolare: vi sono schemi che si sono ormai "incistati", come quello secondo il quale, se al mondo ci sono e continueranno a esserci dei poveri, è perché ci sono dei ricchi. I quali, è chiaro, avrebbero costruito la loro fortuna solo grazie allo sfruttamento degli altri.
È uno schema grezzo o quantomeno parziale (come gran parte del marxismo, teoria astratta e semplicistica, cui sfugge gran parte della vera realtà umana), che però condiziona tuttora parte del mondo cattolico: ad esempio, nel giudicare i problemi drammatici del cosiddetto Terzo Mondo.
Ora, comunque, il centro dell'interesse sembra costituito da quell'islamismo che, sino alla metà del XX secolo - sino, cioè, alla "decolonizzazione" - era visto da molti occidentali come una sorta di fossile per sottosviluppati, confinato nella fascia attorno ai Tropici.
Adesso, invece, si rischia forse di sovrastimarne le potenzialità e il futuro.
Un errore di prospettiva, come per il marxismo?
È possibile, visto che - uscendo dal suo contesto tribale e sparpagliandosi per l'Occidente - l'islamismo dovrà fare conti drammatici con i nostri "veleni", con i nostri razionalismi, secolarismi, laicismi.
L'Islam ha seicento anni meno del cristianesimo, deve ancora attraversare quelle fasi di Riforma, di Rinascimento, d'Illuminismo, di Scientismo alle quali, malgrado tutto, la fede nel Cristo ha fatto fronte uscendone viva, pur tra crisi e perdite.
La Scrittura giudeo-cristiana è "sopravvissuta" all'assalto devastante della critica razionalista.
C'è da chiedersi che avverrà del Corano quando sarà aggredito e vivisezionato dagli "esperti", al lavoro con l'accanimento che certa ricerca accademica occidentale ha riservato alla Bibbia.
In ogni caso, la crisi dell'Islam a contatto con i nostri acidi solventi (quelli stessi che hanno corroso il marxismo, sino al crollo) ma anche, non dimentichiamolo, con i valori di una civiltà impregnata da due millenni di cristianesimo, sarà un processo lungo, drammatico.
Quelli della mia generazione non ne vedranno lo svolgimento; ne possono però intuire le linee, anche riflettendo sulle dinamiche interne che guidano, sin dagli inizi, la fede musulmana. A essa, i cristiani guardano spesso attribuendole categorie loro.
Ne va invece ricordata la diversità, concentrandoci qui sull'aspetto "missionario" e chiedendoci, innanzitutto, se un simile aspetto sia davvero presente nell'Islam.
In realtà, i musulmani non hanno mai avuto un apostolato organizzato, mai delle strutture missionarie così come le ha avute, e le ha, il cristianesimo. Anzi: come vedremo hanno addirittura cercato di scoraggiare le conversioni al Corano.
Gli storici sono pressoché unanimi nel ritenere che Maometto sia morto senza prevedere in alcun modo lo sviluppo che avrebbe avuto la fede da lui predicata, pensando di rivolgersi esclusivamente agli abitanti della penisola arabica. A essi voleva dare una fede monoteista, strappandoli dalle superstizioni pagane, e una comunità, così come già l'avevano gli ebrei e i cristiani.
La straordinaria, imprevista espansione araba dopo la morte del Profeta non avvenne affatto - come vuole l'immaginario popolare - al grido, rivolto ai sottomessi, di «credi o muori!».
Che così non fosse, lo dimostrano anche le minoranze cristiane, e pure ebraiche, che ancor oggi sopravvivono, dopo oltre mille anni di dominazione islamica.
In realtà, gli arabi non partirono in guerra per convertire alla fede ma per sottomettere al loro dominio le terre conquistate.
In effetti, dopo le stragi iniziali, con i vinti stabilivano un vero e proprio "contratto di protezione" che si basava su due cardini: pagare un tributo e accettare la pubblica umiliazione, riconoscendo i privilegi dei padroni. Abbiamo molte di queste "carte di protezione" (in realtà, di dominio), stipulate in Paesi cristiani invasi.
Tra i doveri da rispettare c'è il divieto di suonare le campane, di mostrare in pubblico la croce, di costruire nuove chiese o conventi, di erigere case più alte di quelle dei discepoli di Maometto, di ospitare questi, gratuitamente, mentre pellegrinano verso la Mecca.
Ebbene, a questi doveri, tesi alla umiliazione, se ne aggiungono due che sembrano sconcertanti: il divieto, cioè, di leggere il Corano, nonché di insegnarlo ai figli.
Il più delle volte, si esplicita ancor più, imponendo a cristiani e a ebrei di conservare la loro religione, sotto pena di morte in caso di abbandono.
Per spiegare queste misure (incomprensibili per un cristiano), ci sono anche ragioni economiche.
La "protezione" aveva un prezzo, e anche assai alto: talvolta pari ai tre quarti del reddito degli sventurati "protetti".
Solo questi pagavano le imposte, i musulmani vivevano, se appena possibile, come rentiers, come mantenuti.
Da qui la proibizione ai non arabi di entrare a far parte della casta privilegiata, pronunciando l'atto di fede nell'unico Dio e nell'unico Profeta.
Ogni convertito in più era un contribuente forzato in meno.
Non quindi, un «credi o muori!» ma, semmai, un «paga e sopravvivi!».
Ci riempiono le orecchie, ormai da tempo, parlandoci della "tolleranza" musulmana - ad esempio, in Spagna - contrapponendola, naturalmente, all'"intolleranza" cattolica.
Ma questi apologeti nostrani di Allah dimenticano di spiegare (o ignorano) come stessero le cose: da una parte la folla degli sfruttati, dall'altra l'élite dei padroni che viveva da parassita su quanto estorto, vigilando perché le altre religioni sopravvivessero, così da potere continuare a riscuotere il pesantissimo tributo.
Al momento della mietitura, ad esempio, i soldati dell'emiro vigilavano e sequestravano le messi direttamente sul campo.
Non "tolleranza", dunque, ma preciso, cinico interesse economico.
I turisti che visitano, ammirandole, le grandi moschee o quel palazzo per i piaceri degli emiri musulmani che è l'Alhambra di Granada non sanno che quelle meraviglie sono state erette riducendo alla fame i "protetti". Se tutto, nel mondo cristiano, è stato costruito con denaro proveniente dai sacrifici volontari dei credenti, tutto o quasi nel mondo musulmano è stato costruito con i sacrifici imposti ai credenti, ma di altre religioni. È una realtà, questa, sempre ignorata in tanti discorsi di certo terzomondismo occidentale.
Ma come mai, allora, la lenta ma inesorabile islamizzazione di tante, vastissime regioni, come ad esempio il Nordafrica e il Medio Oriente, sedi di cristianità litigiose, certo, ma pur sempre fiorenti?
Proprio la litigiosità spiega perché agli invasori arabi siano state talvolta spalancate le porte: meglio loro (dei quali, tra l'altro, spesso non si conosceva la dottrina) che la dipendenza da Bisanzio o la lotta contrapposta tra varie sètte e Chiese.
Quando poi i credenti in Allah furono installati come padroni, soltanto le prime generazioni cristiane (ed ebree) sopportarono compatte lo schiacciante statuto da "protetti".
Esserlo, non significava soltanto tasse e umiliazioni, ma anche l'esclusione da ogni ruolo nella vita sociale, riservata ai soli musulmani.
Agì anche, potentemente, il rullo dell'implacabile legge matrimoniale: chi si innamorava di una ragazza islamica, doveva convertirsi anch'egli per poterla sposare.
Invece, il musulmano che s'invaghiva di una cristiana, al momento delle nozze la trasformava in compagna pure di fede.
Tra l'altro ogni passaggio al Corano era - ed è - irrimediabile.
Qualcuno ha paragonato l'Islam a una trappola per topi: facile e invitante l'ingresso, che non richiede alcun catecumenato, ma solo la recitazione, davanti a due testimoni, della convinzione che c'è un solo Dio, Allah, e che Maometto è il suo profeta.
Ma, come in ogni trappola, all'accesso agevole fa contrasto l'impossibilità di uscire: pena di morte, senza alcuna esitazione o eccezione, per chi, una volta entrato, volesse abiurare, rinnegare la nuova fede.
Convertirsi, comunque, significava non solo essere liberati dal tributo ed entrare a far parte della comunità dei privilegiati.
Significava anche professare una religione dalle esigenze morali infinitamente meno gravose.
Sul piano sessuale, ad esempio, mentre il cristianesimo è arrivato a dire che in questa materia non esistono peccati "veniali" ma solo "mortali", è praticamente il contrario per l'Islam: l'adulterio, per esempio, è colpa che merita la morte (ma per ragioni "civili", più che religiose) solo per la donna, non per l'uomo, per il quale non è né reato né peccato.
L'omosessualità è condannata, ma quasi sempre a livello teorico, tranne che in qualche eccesso sporadico di integrismo: in realtà è talmente praticata (e senza sensi di colpa "fideistici") che da sempre i Paesi arabi sono davvero "la mecca" - è il caso di dirlo - per i gay di tutto il mondo.
E questo non perché tra gli arabi sia più elevata la percentuale di omosessuali, ma perché la rigida separazione dei sessi fino al matrimonio spinge i giovani a cercare un provvisorio surrogato con gli effeminati che giungono apposta dall'Occidente.
Si aggiunga poi la poligamia e, accanto a essa, la possibilità di avere un numero di concubine limitato soltanto dalla disponibilità economica: il solo dovere, infatti, è avere i mezzi per mantenere quelle donne.
Tutto questo, e molto altro ancora, ha fatto sì che (a dispetto delle misure per non diminuire il gettito della tasse "di protezione" e l'assenza di proselitismo) l'islamizzazione sia andata avanti, lenta ma inesorabile. Poco o nulla, comunque, è dovuto a un'opera "missionaria", di "apostolato", per la quale, dicevamo, sono mancate sempre le strutture.
A parte qualche iniziativa, recente, e imitata dal mondo cristiano.
Tra le imitazioni, ci sono anche ingenui, spesso goffi, tentativi di apologetica, per convincere i non musulmani della "verità" del Corano.
Ne ho alcuni esempi nella mia biblioteca e devo confessare che sono disarmanti.
In realtà, manca, qui, una tradizione: manca quella tensione missionaria, quella "passione di convincere" che sin dagli inizi ha contrassegnato il credente nel Vangelo.
Dovremmo essere consapevoli, comunque, di questa lezione della storia: più che "convertire", il mondo musulmano ha, sin dall'inizio, il desiderio di "sottomettere".
Ed è sé stesso solo laddove c'è lui come padrone e ci sono dei forzosi "protetti".
La diaspora non è il suo habitat.
Anche da qui, i dubbi fondati sulla sua possibilità di tenuta in un Occidente dove, malgrado tutto, non sarà facile mettere tutti sotto l'imperio della mezzaluna e dei verdi stendardi del Profeta.
(Vittorio Messori)