Nino Salvaneschi
Note al mio itinerario spirituale
dal "Breviario della Felicità"
1
Il monastero di Praglia è ancora oggi una vera miniera di saggezza. Qualsiasi viandante, anche tra i più affrettati, che sosti alla bella Badia dugentesca, può facilmente trovare qualcosa per la propria anima. Un benedettino vi accompagna attraverso logge e androni, corridoi e cappelle, sino a quella deliziosa loggetta dove Antonio Fogazzaro pensò ad alcune tra le più belle pagine del suo Piccolo mondo moderno e a quel refettorio dove sopra ogni scanno di frate si vede un disegno scolpito nel duro legno e si legge un motto che lo accompagna e lo spiega. E qui bisogna veramente imparare a vedere attraverso i simboli, come già ammoniva san Paolo in una Lettera ai Corinti.
Ebbene, mi pare vi siano a Praglia un disegno simbolico e un motto benedettino che si possono applicare ai convertiti. Ecco il disegno: uno sciame di piccoli delfini impauriti dalla tempesta ritorna nel seno della madre. E il motto spiega: "Spes una in reditu"; unica speranza nel ritorno.
2
Pensavo a tutto questo a proposito di conversioni e di convertiti. Secondo il mio modesto parere, ai giorni nostri si fa un po’ troppo facile uso di tali parole e di tali aggettivi. D'accordo: il mondo ha fretta ed è malato di febbre. Tutti vogliono arrivare presto a qualcosa. Tutti bruciano le tappe. Tutti hanno premuto l'acceleratore della propria vita. Ma, nonostante questo, bisogna riconoscere che nella nostra epoca scettica, scantonata e surrealistica, le giovani generazioni sostano un momento e si domandano se questa vita tormentosa, agitata e dinamica, abbia un senso, un valore e un significato. Allora alcuni adolescenti, dopo aver letto qualche trattato di psicanalisi, qualche libro di Sarte, o qualcosa che mescola il sesso, la cocaina e il delitto in un cocktail di facile ebrietà dionisiaca, guardano con una specie di curiosità i convertiti. E i piccoli delfini del simbolico disegno della Badia di Praglia vengono di moda come gli assi del calcio, gli astri della radio e le "dive" del cinematografo.
3
Ecco perché, mentre sto per fare qualche confidenza, mi domando: non è narcisismo spirituale o peccato d'orgoglio? E a chi possono giovare queste confidenze intime? Riuscirò veramente a tenere nascosto qualche segreto nelle spelonche della mia anima? E l'inconscio, che oggi è di moda, non mi giocherà qualche tiro birbone? Abbiamo tutti dentro di noi "qualcuno" che rassomiglia stranamente al sinistro fratello Medardo. E il buon Hoffmann ci ha raccontato nell'Elisir del Diavolo che cosa possa succedere se si sveglia questo curioso nostro coinquilino, talvolta un po’ imbarazzante...
Inoltre, proprio Carl-Gustav Jung ci ha parlato dell'"ombra", "somma di qualità svantaggiose tenute nascoste o difettosamente sviluppate in noi." E a proposito di crisi e di ritorni, di anime e di coscienze, anche 1'"ombra" potrebbe venire alla luce. Infine, alcuni psicanalisti più avveduti ci ammoniscono che "lo scontro con l'ombra, rivelando la volontà di potenza cara all'Adler, scatena una fiumana di fantasie sessuali." E anche se questo linguaggio di psichica moderna può apparire troppo ermetico per i più, ognuno sa che, a lungo rimestare negli abissi della propria coscienza possono affiorare istinti, ricordi e rimorsi poco piacevoli. E talvolta qualcosa di peggio...
Comunque, tutto questo è necessario se si vuole fare ritorno. Spesso si comincia a risalire soltanto dopo aver toccato il fondo. La leggenda di Anteo è un insegnamento. Ma gli uomini non amano più le leggende, anche se secondo Schlegel e Novalis rivelano qualche aspetto del mondo magico e rievocano l'età profonda dell'umanità. E i ragazzi preferiscono i fumetti che non invitano troppo a pensare. Ma esistono ancora ragazzi?
Inoltre, una statistica americana ci fa sapere che il novantotto per cento degli uomini non pensa. C'è da sperare, però, che i convertiti facciano parte di quel due per cento di persone che pensano... almeno ai proprî peccati.
Ma, a proposito di convertiti, rammento un altro disegno simbolico della Badia di Praglia che esprime il sentimento di molti peccatori. Ecco il disegno: un cervo fugge ferito da una freccia. Il motto spiega: "Comes individua"; il peccato e il rimorso sono compagni inseparabili. Dunque, benedetto il rimorso, perché spesso è il segnale del ritorno.
4
Credo che i peccatori sappiano di Dio qualcosa che i santi, forse, non conoscono altrettanto bene. Anzitutto la Sua misericordia. E aggiungerei la Sua infinita pazienza nell'attendere i piccoli delfini di ritorno. E direi persino la Sua infinita amorevolezza paterna nel preparare i richiami, gli incontri e i crocicchi necessarî per facilitare il ritorno.
Per tutto questo, i peccatori possono confermare la massima che se Dio ha bisogno degli uomini, gli uomini hanno ancor maggiormente bisogno di Dio. E romanzi e cinematografie sostengono questa tesi. Non vi farò dunque sorprendere se anch'io mi confesserò peccatore senza, tuttavia, presentare il mio diario. Dostojewskij ne ha scritto uno che vale per molti. E tutti ricordiamo le Confessioni di Agostino. Ma nessuno potrà quindi stupirsi se la conclusione è che il peccatore, provando rimorso, incomincia a infliggersi la prima pena. E anche questa verità spirituale è illustrata dai disegni e dai motti della Badia di Praglia. Un cane addenta un riccio. E la saggezza benedettina avverte: "Sibi poena malum"; il male è pena a se stesso.
5
Ho citato Agostino. Ecco un peccatore e un convertito. In questo caso c'è poco da discutere, perché Agostino ha ripudiato il manicheismo per abbracciare la religione del Cristo. E questa chiamerei propriamente conversione: abbandonare una fede per un'altra. Come è stato, se vogliamo citare tra gli scrittori moderni, per Chesterton e Joergensen. Ma per tanti altri che, nati nella religione cattolica, dopo essersene allontanati per una ragione qualsiasi, hanno fatto ritorno alla Chiesa, non adotterei la parola "conversione". Così, quel Joris-Karl Huysmans, autore di La Cattedrale; Paul Verlaine, autore di Sagesse e anche Giovanni Papini, che ha scritto di Cristo e del Diavolo, sono soltanto dei ritornati. Delfini impauriti dalla tempesta che ritornano in seno alla Madre. Se non vi spiace, direi dunque che anch'io sono un delfino di modestissime proporzioni: un piccolo delfino educato, ormai moltissimi anni fa, dai Fratelli delle Scuole Cristiane di Torino.
6
Tuttavia si continua a usare impropriamente la parola "conversione", anche per chi ritorna alla Casa del Padre, spesso dopo amare esperienze; quindi, con un desiderio di dissetarsi a una sorgente di verità. Ma noi, con molta indulgenza, siamo soliti chiamare "esperienza" la somma di tutti i nostri errori. In quanto alla verità, la nostra epoca ci ha reso piuttosto accomodanti, poiché ognuno finisce per fabbricarsene una a uso della propria vita. E molti, oggi, si appellano al padre dell'esistenzialismo e al creatore dell'"angoscia", a quel Kierkegaard, interprete dell'inquietudine romantico-cristiana del XIX secolo, che ha affermato: "Soltanto la verità che ti edifica è quella che ti conviene."
Ma che cosa è la verità? E chi la possiede per intero? Vi sono state guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per questo. Ma ritorniamo alle conversioni.
Naturalmente ogni conversione è contrassegnata da una crisi religiosa. E da qualche tempo queste crisi sono abbastanza frequenti. Anche perché i dubbî risvegliati dalla scienza, dalla filosofia e dal materialismo le alimentano di continuo. Comunque, ogni crisi religiosa tende sempre alla conquista della verità. E il possesso di una verità intima, che spesso ci aiuta a vivere e può diventare la roccaforte della nostra coscienza, ci dona una grande serenità. A volte, però, può succedere che qualcuno creda in un'illusione come in una verità e si accorga dell'errore solo molto tardi. Tuttavia non è mai troppo tardi per fare ritorno. E più di una volta proprio l'errore serve a scoprire la verità.
7
Non dobbiamo a ogni modo credere che crisi e conversioni siano particolarità del Cristianesimo. Anche il Buddismo, per citare un'altra grande religione, ha le sue crisi e le sue conversioni che si chiamano "viveka" e "manadvaravar yana". Ma quello che importa per ogni conversione è finire di commettere il male. Momento spirituale che i buddisti chiamano "sabbâ pâpassa akaranam" e incominciare a fare il bene, momento spirituale che i buddisti chiamano "Kusalassa upassampadâ". E questo è sempre difficile. Soprattutto per i peccatori, perché le cadute sono facili per chi ritorna. E le tentazioni chiamano con voci sempre più seducenti quando viene la sera.
Comunque con la conversione, cristiana o buddista che sia, bisogna suscitare in noi la scintilla divina che i saggi dell'India chiamano "mana", e arrivare alla attuazione del nostro io vivente nella fede che i buddisti chiamano "sadhana". Gli uomini cercano inquieti per le strade della terra. Ma Dio li guarda sorridendo dall'alto dei Cieli.
8
Se ho parlato di Buddismo è perché molti anni or sono, verso il 1912, ho incontrato sul mio cammino Gotamo Buddha, "lo svegliato". Già da allora l’Oriente esercitava una certa attrattiva. Spesso la casa che ci sta di fronte richiama la nostra curiosità. Non apprezziamo quasi mai il fiore che sta sul nostro davanzale. E le dottrine della reincarnazione, condannate dalla Chiesa nel terzo concilio di Costantinopoli, che è stato il sesto ecumenico, accendevano già in quegli anni discussioni sui destini umani governati dal Karma, questo cancelliere delle cause e degli effetti, regolatori a loro volta delle vite anteriori e delle vite successive. E confesso che devo alle letture e agli incontri di quel tempo un'acuíta curiosità per tutti i problemi dell'essere e del divenire. Ma dopo inni di ricerche nei labirinti dello spiritismo, della teosofia e dell'antroposofia, più di una volta mi sono sorpreso a ripetere le parole di Amleto: "Dunque saremo condannati come il serpe a strisciare sempre tra terra e cielo?"
Tuttavia un risultato era per me divenuto palese: avevo ormai riacquistato la certezza che esisteva un "altrove" nel quale si dovevano in qualche modo realizzare i destini umani. Ma che cosa era questo destino? E perché ognuno possedeva un destino diverso? E perché i destini umani erano intessuti d'amore e di dolore? Allora, per compiere la mia iniziazione, la "sannyas" dei buddisti, incominciai a leggere gli autori più diversi alfine di studiare il mistero del creato e quello delle anime: Fabre e Schuré, Dostojewskij e Fogazzaro, Flammarion e Kardec, Emerson e Maeterlinck... A volte i libri sono i silenziosi iniziatoti del nostro destino. E un giorno mi capitò tra le mani una biografia di Francesco...
9
Ho sempre amato san Francesco. La prima volta che l'ho incontrato è stato, naturalmente, ad Assisi. Bisogna risalire quasi alla mia giovinezza. Ora che rifletto, mi pare proprio che quel primo incontro, nel 1910, sulla piazza davanti alla Basilica di frate Elia, avesse il valore di un invito. Ero stato a Perugia per una conferenza al Teatro Morlacchi. Già da allora tenevo conferenze. Come vedete ero un pericoloso individuo da sorvegliare. Fatto sta che il giorno dopo un amico mi condusse ad Assisi a trovare san Francesco "a casa sua".
Ebbene, non so dirvi come né perché, sentii che Francesco non doveva essere estraneo alla mia vita. Intuii che un giorno il poeta del Cantico delle creature mi avrebbe detto qualcosa. Ma che cosa? Non tentai nemmeno di analizzare questa singolare sensazione, fatta più di vaghi accordi che di motivi precisi. Il presagio è un brivido del mistero. Forse, per comprendere, dovevo aspettare altri "tempi" della mia modesta sinfonia umana.
Entrai nella Basilica e recitai una preghiera. E quasi inconsciamente le parole che mi aveva insegnato mia madre, morta quando contavo appena dieci anni, mi risalirono alle labbra con l'accento della mia infanzia lontana...
10
Comprendere vuol dire allargare i limiti della nostra coscienza.
Ma sarà bene che mi spieghi meglio. Credo che ogni vita abbia qualche momento essenziale capace di rivelare il proprio destino. Forse Stefano Zweig chiamerebbe il complesso di questi momenti "nucleo ardente".
Per conto mio, con la parola "destino" intendo il riflesso della volontà divina sul nostro cammino vitale. Credo anche che ogni vita sia una sinfonia in vani tempi. Spesso, nel preludio della nostra sinfonia terrena vi sono motivi appena accennati che verranno sviluppati più tardi nei tempi successivi dell'esistenza. L'anima coglie questi misteriosi richiami come presagi e attende inquieta il compimento del mistero.
Ma ogni vita è anche contrassegnata da richiami, incontri, crocicchi e ritorni. E la nostra collaborazione alla volontà superiore è comprendere, interpretare e rendere positivi le voci, i segni e le prove che formano appunto il destino di ognuno. Forse tutto questo costituisce la "seconda realtà" della quale parla Novalis, realtà che l'anima cerca come suo alimento spirituale.
Così se ora, giunto alla mia sera, mi fosse consentito dare un consiglio ai giovanissimi che interrogano i loro preludi o giocano ancora nelle aiuole del loro mattino, direi: "Pensate quello che volete dalla vita, ma custodite nel cuore la certezza di questa realtà e l’ideale di amare qualcuno e di servire qualcosa. Abbiate fede e pazienza: e qualcuno o qualcosa verrà al vostro incontro per aiutarvi a comprendere, interpretare e realizzare il vostro destino."
Bisogna sempre camminare sulla strada che Dio ha scelto per noi.
11
E venne la prima guerra mondiale. Partii come tanti e tanti. Il mio amore per il mare m'indusse ad arruolarmi marinaio motonauta a bordo di uno dei primi Mas. La Spezia, Napoli, l'Egeo, Rodi. La caccia ai primi sommergibili germanici, i terribili "U" che, però, confesso aver veduto soltanto da lontano. E poi una malattia. Nulla di eroico. Una lunga, noiosa e volgare malattia. Mesi di degenza in un ospedale di Rodi. Altri due mesi all'Ospedale della Marina di Piedigrotta di Napoli.
Per ogni marinaio la malattia è un porto tranquillo dove può meglio esaminare le sue vele e misurare il proprio cuore. E giunse la prima crisi. Il primo richiamo. Allora ripensai con calma alla mia giovinezza passata, piena di cose vuote; guardai la piccola nave della mia vita con il molto male e il poco bene. E provai il desiderio di rattoppare le vele prima di riprendere la rotta e drizzare la prora verso qualche riva. Quale? Dove? E che fare nella vita? Che cosa scrivere di meno vano e fatuo? E sfogliavo L’Imitazione di Cristo che le buone suore dell'Ospedale di Piedigrotta mi avevano dato per la mia convalescenza.
12
Ormai la mia inquietudine religiosa si dibatteva tra Gesù e Budda. La teosofia, lo spiritismo e la reincarnazione mi presentavano sempre nuovi quesiti. E la crisi si acuiva.
So che non racconto nulla di eccezionale. Tutti attraversano crisi. Tutti hanno chiamate. L'inquieto Gide ci ha ammonito che il Signore chiama tre volte: "C'è tempo, c'è ancora tempo, non c'è più tempo." Ma in quale momento della nostra vita non c'è più tempo? Molti aspettano il terzo richiamo a sera inoltrata. E per qualcuno viene la notte... Ma tutto questo è letteratura. E cercavo ancora in altri libri.
Secondo molti psicologi, nel meriggio della vita ha inizio quel fenomeno che si chiama enantiodromia. Questa difficile parola significa "correre incontro" o, meglio, rivedere i proprî errori per ritornare sui propri passi. La crisi dell'età pone a ognuno il "problema degli opposti" e segna in genere le conversioni, i cambiamenti di professione, i divorzî... L'età pericolosa: i quaranta-cinquant'anni per la donna; i cinquanta-sessanta per l'uomo. Salvo complicazioni, s'intende. Il Capo delle tempeste, dove qualche volta naufragano persino provetti navigatori. L'età dello Sturm und Drang. Ma mi trovavo già a quel punto? Non era ancora troppo presto?
Terminata la guerra sposavo la donna che, per fortuna, Dio mi ha messo al fianco poco prima del mio Capo delle tempeste. Evidentemente il Signore non voleva che fossi solo a lottare. E con mia moglie vivemmo qualche anno a Capri, l'isola del sogno. Là, lavorai a Sirénide, l'ultimo libro che dovevo scrivere con i miei occhi.
Un giorno andammo ad Assisi. Desideravo che anche mia moglie conoscesse Francesco. E spesso, verso sera, scendemmo a San Damiano. Poi partimmo per il Belgio dove mi chiamava il mio lavoro.
13
E un giorno, nel Paese di Ruysbroek l'Admirable, il Francesco delle Fiandre, incontrai "madonna cecità". Devo confessare che non rimasi troppo sorpreso. Da vario tempo aspettavo "qualcosa". Non sapevo bene di che genere: "qualcosa" che venisse finalmente a dare un senso alla mia vita. Avevo trentasei anni. Mi giudicavo fallito, almeno davanti all'ideale della mia giovinezza. Quanto avevo scritto sino allora non mi soddisfaceva e non ero ancora riuscito a formarmi una qualsiasi personalità. Ora quell’"avventura" veniva a pormi di fronte a una prova di un certo rilievo. Superare un ostacolo imprevisto assumeva l'aspetto di una gara sportiva. Bisognava fare bella figura. Il dilemma era semplice: rifiutare o accettare; maledire o comprendere; naufragare o rinascere. Ed ero libero di scegliere. Questa libertà è veramente la grandezza di ogni destino umano. La lotta non è stata lunga. Ho subito intuito che quest'"avventura" mi veniva offerta perché comprendessi "qualcosa" nelle mie modeste possibilità spirituali. La cecità doveva essere il crocicchio più importante della mia vita. Molti segni me lo indicavano con certezza. Bisognava superare questa esperienza che, forse, Thomas Mann chiamerebbe abissale. In realtà, ogni abisso non è che una vetta capovolta.
Accettai la prova senza discutere. Proprio direi... a occhi chiusi. Capii che la cecità poteva divenire un mezzo per arricchire la mia vita, allargare i suoi limiti e concretare il mio destino. Ma come imparare il mio nuovo mestiere di cieco?
Sono ormai passati trentadue anni e ogni ricordo è ben preciso in me. Una sera, nei primi mesi più combattuti della mia cecità, quando avevo già accettato la prova come espiazione e quale invito a una maggiore elevazione, domandai al Signore che cosa dovessi fare. E dentro di me sentii un tacito invito che, certo, proveniva dal mio subcosciente o dal mio io migliore: "Lavora senza pensarci: spesso dalle tenebre sgorga una nuova luce."
Ubbidii proprio senza pensarci e continuai a vivere come se vedessi ancora. Intanto mia moglie, fin dai primi giorni della cecità, era divenuta la dolce e serena "sorella del mio bel destino". A lei, in coscienza, devo non solo l'aiuto e il superamento della mia prova, ma ben di più. Non si può dire sempre tutto quello che unisce nel segreto due cuori e due destini...
Era la primavera del 1923. Non sapevo ancora come avrei potuto continuare a lavorare e, tanto meno, che cosa sarei stato capace di dire e scrivere. E chi poteva illuminarmi? Intanto mi convincevo di una realtà: la cecità non mi pesava troppo. Non potevo nemmeno dire che mi facesse soffrire molto. E, senza che me ne accorgessi, stavo mutando il dolore in gioia e la rinuncia in conquista. Pensavo ai grandi esempi: soprattutto a Beethoven e a Lidwina da Schiedam. E una sera, con le mie incerte dita, riuscii a decifrare una pagina in braille che mia moglie mi porgeva sorridendo quasi materna: "Beati quelli che sostengono infermità e tribolazioni."
Ancora una volta Francesco veniva a trovarmi con il Cantico delle creature. Era un invito a restituirgli la visita ad Assisi? Allora, sentendo già la mia anima colma di gioia, pensai di scrivere questo Breviario della felicità.
14
Tuttavia, un giorno grigio e con l'anima in rivolta, mi dissi: san Francesco è morto da tanto tempo e mi occorre una persona viva che possa illuminarmi sul mio destino. E andai a trovare uno scrittore che avevo tanto amato nella mia giovinezza, il poeta dell'India luminosa e favolosa: Rabindranath Tagore. L'autore di Ricolta votiva poteva veramente essere il saggio "giardiniere" capace di spiegarmi le radici di un Fiore della notte che, ormai, nasceva in me. Volevo domandare al poeta quale significato avesse la cecità per la spiritualità indù e che cosa potevo fare per non fallire la mia prova vitale.
Tagore ci accolse con la cordialità affettuosa di un fratello maggiore. Sedette tra mia moglie e me e, chiudendo gli occhi per esser più vicino alla mia cecità, incominciò a parlare con quella voce dolce e lenta che aveva risonanze di musicalità lontane. Poi, dopo avermi illustrata la saggezza dei "Veda" e delle "Upanishad", concluse tenendomi una mano tra le sue:
"Se vuoi essere un cantastorie cieco, guarda la vita riflessa dentro di te e scrivi."
Da allora mi piacque essere il "cantastorie cieco all'angolo della via". A occhi chiusi guardai passare le folle inquiete, sempre più incalzate dalla fretta e dalle bramosie. E cercai di vedere dentro i cuori per interpretare i destini. Ricordai quanto già Edoardo Schuré, l'autore de I grandi iniziati, mi aveva detto a proposito delle iniziazioni inconsce. E ricordai pure certe parole di Krishnamurti sul sentiero che ognuno deve cercare e trovare.
Ma tutto questo, e anche la saggezza indù che mi aveva rivelata il grande poeta, non mi bastava. E volli interrogare un uomo della nostra religione. Da tempo sentivo rinascere in me, più calda e più viva, più ricca e più cosciente, la fede cristiana.
L'eventualità della reincarnazione non mi tormentava più. Poco m'importava sapere se ero stato un ipaspista di Alessandro il Grande, oppure un bagnino di terme romane. Meno ancora quello che avrei potuto divenire secondo le leggi del Karma. M'importava non fallire la mia vita: dire e fare qualcosa. La vita è un mistero che la fede cristiana illumina con la redenzione. Il dolore è sempre un richiamo.
Mi recai quindi da Padre Pio da Pietrelcina. Allora era l'epoca nella quale si poteva avvicinarlo con facilità, perché le grandi folle non avevano ancora imparato la strada di San Giovanni Rotondo. Certo, il frate stigmatizzato come san Francesco, avrebbe saputo illuminarmi meglio del poeta indù.
A dir la verità, Padre Pio mi ricevette piuttosto bruscamente: "Non vuoi guarire alle volte?" mi domandò secco.
Poi, quando seppe che non chiedevo alcuna grazia, si rabbonì e, alla mia solita domanda, rispose: "Figliolo, cerca di scrivere cose buone e Dio provvederà. Pregherò per te."
Questi due incontri, per me decisivi, avvennero nel 1924 e nel 1925.
15
Sono trascorsi moltissimi anni. E devo dire che, forse per il dogma della Comunione dei Santi, mi sono spesso sentito rianimato da "qualcosa" di caldo e palpitante come una corrente di preghiere. E tre anni or sono un mio sconosciuto lettore, ufficiale di marina imbarcato sulla "Antonio Pacinotti", mi informava come da tempo, a mia insaputa, fossi incluso in una "corrente di preghiere" che aveva come guida spirituale proprio Padre Pio da Pietrelcina.
Qualcos'altro di nuovo, intanto, veniva compiendosi in me. La cecità, anziché costituire un peso o una catena, cosa che sarebbe stata logica, talvolta mi dava persino una specie di esaltazione allucinante. Mi sembrava davvero di essere un campione sportivo che dovesse terminare la sua corsa a ostacoli. Poi, a poco a poco, incominciai a vedere in altro modo le anime e i "colori" delle anime, i destini e i valori dei destini. Compresi che la cecità era vedere dentro cose e persone, e guardare dal di dentro persone e cose. E, sempre più aiutato da mia moglie, valorosa e generosa compagna di vita, di lavoro e di destino, andavo verso l'avvenire pieno di fiducia. La certezza di interpretare il mio destino mi dava un'energia insospettata e mi accorgevo di amare la cecità come una buona e servizievole sorella incontrata al crocicchio della mia vita. Certo, senza la cecità, sarei stato veramente cieco. L'accettazione della prova era stata immediata e quasi gioiosa. Ma a chi dovevo questa specie di miracolo ben diverso da quello di potere riacquistare la vista corporale?
Due anni più tardi, a un congresso di Bologna, lanciai una proposta: tutti i miei compagni ciechi, naturalmente anche gli stranieri, avrebbero dovuto riunirsi ad Assisi per celebrare il settimo centenario del Santo e salutare Francesco perché, divenuto cieco, aveva cantato la luce e l'amore. E la domenica 12 settembre 1926 un corteo di duecento ciechi discese a San Damiano. Una moltitudine immensa ci attendeva. Portavamo un'anfora con un giglio, un ulivo e un biancospino, simboli della purezza, dell'umiltà e della tribolazione, opera in ferro battuto forgiata dal fabbro d'arte, il caro amico scomparso, Alessandro Mazzucotelli. E dopo un commovente rito andammo a deporre l'anfora proprio sul luogo dove il Poeta cieco aveva composto il Cantico delle creature. Là ebbi l'immeritato onore di tenere il discorso celebrativo. E mai come quel giorno avrei voluto essere una voce senza volto per parlare soltanto a nome delle anime. Allora promisi a me stesso di scrivere una biografia di Francesco.
16
Da quella commemorazione sono passati tanti anni. E, giunto a sera, posso dire in coscienza che ho compreso il mio destino e anche che, ringraziando Iddio, ho cercato d'interpretarlo. Ma spesso mi domandavo: sono riuscito veramente a realizzarlo? Ogni tanto un dubbio mi assaliva. Ero sul cammino giusto? Dove mi trovavo?
Un giorno di settembre del 1930 ritornai ad Assisi e ridiscesi a San Damiano. Mi posi in ginocchio davanti a Padre Pietro Giorgi, guardiano del convento, bello come frate Masseo da Marignano, candido come frate Ginepro. Gli presentai la mia vita perché mi dicesse a quale punto del mio cammino mi trovavo.
E il buon frate mi rispose:
"Hai camminato per molte strade, hai conosciuto molti sentieri, hai sostato a molti crocicchi, hai ascoltato molti richiami e hai incontrato molte anime. Però, non ti sei perduto e la tua bisaccia di cantastorie cieco è colma di tante cose. Per grazia di Dio, san Francesco ti ha preso per mano e ti ha ricondotto alla Casa del Padre. E adesso che il Signore ti benedica e ti custodisca."
17
Questi trentadue anni passarono in un soffio. La cecità è stata la piccola officina per misurare la mia pazienza e... farla perdere ai miei amici. Ed è stato anche il mio oscuro laboratorio di farmacia spirituale.
Devo dire ora che nella mia quotidiana fatica di scrittore cieco mi sentivo continuamente sorretto a un'onda viva e calda, misterioso riflesso della luminosa verità della Comunione dei Santi. Durante tutti questi anni una corrente di simpatia spirituale mi è venuta incontro attraverso lettere e confidenze di molti ignoti lettori. E devo confessare che se talvolta ho potuto dire una parola, forse non completamente inutile a qualcuno, certo questa corrispondenza ha continuamente alimentato il mio cuore e il mio lavoro. Siamo tutti gocce di uno stesso fiume. Siamo tutti ritmi di una stessa sinfonia.
Purtroppo il mio ritorno alla Casa del Padre è stato lungo e non facile. Numerose le cadute e troppe le miserie e le debolezze, Ma la misericordia di Dio mi è sempre venuta incontro. E soltanto l'anima ha veduto e accolto il segno di quel Dio vivente del quale ci parla Dostojewskij. Tutto questo non si è svolto senza la lotta tra l'Angelo e la Bestia che, come dice Pascal, vivono dentro ognuno di noi.
Più di una volta il Nemico mi ha atteso a qualche crocicchio per ostacolarmi il cammino, per distogliermi dalla via, per confondermi le idee, per incendiarmi la fantasia, per disturbarmi nelle ore del lavoro e della preghiera. Scrittori di grande fama come Huysmans e Gide, Dostojewskij e Bernanos non hanno nascosto queste amare esperienze. Del resto già Goethe ci metteva in guardia contro la potenza dell'Angelo delle tenebre, ricordando la massima latina: Nemo cuntra Deum, nisi Deus ipse.
Ma è meglio parlare d'altro e, magari, ritornare ancora alla Badia di Praglia per cercare un motto della saggezza benedettina. Ed ecco un disegno simbolico: una cicogna che lacera delle serpi; e la parola spiega: "Conficiam"; annienterò il male. Tutta l'essenza della nostra avventura umana è qui. Comunque, la vita rimane sempre meraviglioso dono offerto da Dio a ognuno per il nostro riscatto.
Per quanto mi concerne, non muterei il mio destino di scrittore cieco con quello di nessun altro. Anche perché mi consente di dire quello che vedo dentro di me e di vedere chiaramente il mio sentiero terreno. E, soprattutto, ho compreso che deve esistere un'inconscia "comunione dei sofferenti" sotto il segno del dolore accettato. Ma bisogna disperdere la piccola goccia della propria sofferenza nell'infinito oceano del dolore del mondo.
Così, ogni giorno, ringrazio il Signore di avermi donata la cecità. Ma qualche volta, in mezzo a tante miserie e a tante tribolazioni, provo il rossore di essere soltanto cieco. E, spesso, ho vergogna di non poter offrire che una parola. Una parola soltanto...
18
Eppure, talvolta, la parola ha in sé una forza quasi magica. Ma oggi la parola, questa più deprezzata tra le monete, sta battendo in ritirata davanti ai fumetti, alle immagini, al cinematografo e alla televisione. Una statistica, naturalmente americana, ci avverte che l'immagine colpisce quattordici volte più della parola. E sarà... Ma, per contro, nessuna immagine potrebbe avere il valore anche di una sola parola detta o scritta che arrivi a tempo. Soprattutto quando questa parola nasce dal cuore ed è collaudata da un'esperienza vissuta e sofferta.
Così, dopo anni passati a occhi chiusi ad analizzare cose e persone, anime e destini, ho compreso il valore di due parole essenziali per la vita di ogni uomo: amore e dolore. E, con la cecità, credo di aver potuto anche vedere e capire qualcosa del grande mistero che unisce amore e dolore in un ritmo solo. Infatti, soltanto amando di più possiamo soffrire meglio, e soltanto soffrendo meglio ritorniamo ad amare di più. Infine, spesso, riflettendo alla massima cristiana: "Per crucem ad lucem", ho trovato che si poteva anche invertire i termini e dire: "Per lucem ad crucem".
L'anima crocifisso nel buio canta la luce. E la luce annuncia sempre l'aurora.
19
Adesso, come usano fare i letterati di professione, dovrei parlare della mia attività. Su questo punto, però, condivido pienamente l'opinione del messicano Traven, autore di La carreta, quando dice: "Lo scrittore non deve avere altra biografia che i suoi libri."
Ora, siccome mi sono ormai convinto di aver messo i pantaloni lunghi una seconda volta nella mia vita con la cecità, mi pare logico che queste note sul mio itinerario spirituale precedano proprio il primo libro scritto a occhi chiusi. E mi torna anche gradito salutare così questa fortunata diciassettesima edizione del Breviario della felicità.
San Remo, marzo 1955.