Riccardo Tonani
Nuovi giudizi storici: l’Inquisizione non fu poi così crudele come si pensava
TORTURATOTI SI' MA "GIUSTI"
Pinze infuocate, imbuti giganti, sedie acuminate... Per oltre cinque secoli (dal Medioevo all’Ottocento) la Chiesa cattolica, seppure in forme diverse e a fasi alterne, ha usato ogni mezzo, anche i più feroci, per sconfiggere le religioni "concorrenti", definite eresie, e ogni genere di oppositore (compresi Galileo Galilei e Giordano Bruno). E lo ha fatto scientificamente: più di un manuale pratico ad uso del perfetto inquisitore spiega come riconoscere anche esteriormente un eretico, come sfruttare meglio le informazioni delle spie, come e quanto torturare i sospettati. Quell’infelice pagina della storia pesa ancora come un macigno se oggi, alla vigilia del Giubileo del 2000, il Papa ha dichiarato che sarà l’occasione per chiedere perdono per le "violenze perpetrate in nome della fede".
Meglio dei laici
Eppure, sfogliando il Manuale dell’Inquisitore di Nicolau Eymerich del 1376 (pubblicato da Piemme) le sorprese non mancano: si scopre, cioè, come del resto sottolineano molti studiosi in questi ultimi anni (per esempio i laici Henry Kamen e Adriano Prosperi), che, in fondo, gli inquisitori erano gli uniti tenuti ad istituire processi ben documentati e rigorosi, a rispettare le norme giuridiche e perfino a ricorrere alla tortura solo come mezzo estremo. Niente a che vedere con la giustizia sommaria dei tribunali laici nello stesso periodo, ferma restando l’odiosità di perseguire reati d’opinione e non per veri delitti. Fatto sta che a volte l’imputato preferiva addirittura essere giudicato dall’Inquisizione perché ritenuta poco severa (ad esempio nei confronti del reato di "bestemmia"). Per farsi un’idea, vale la pena allora di vedere come funzionava il mestiere dell’inquisitore (in questo caso medievale) e come era organizzato.
Pagati dal vescovo
L’inquisitore era nominato dal Papa tra i frati domenicani e francescani come un vero e proprio giudice che doveva individuare focolai di eresia o devianza della religione cattolica. Era di solito un uomo di una quarantina d’anni (Bernardo Gui, uno dei più celebri, ne aveva 45 al suo primo mandato), laureato in teologia, esperto in diritto canonico e civile, abile oratore, inviato in determinate diocesi della cristianità ad affiancare i vescovi che in origine, come nel XII secolo, erano i responsabili nella ricerca di eretici.
Arrivava a destinazione con un piccolo seguito di assistenti: un notaio, un medico, alcuni esperti in teologia e guardie armate. A pagarli tutti pensava il vescovo della diocesi, che spesso però se ne dimenticava e così l’inquisitore doveva provvedere di tasca propria.
Appena arrivato, si presentava al governatore della zona per avere un salvacondotto per sé e per i suoi sgherri. Un buon inquisitore doveva stare attento a non inimicarsi i potenti locali: molti inquisitori infatti furono uccisi o fatti scappare perché la loro presenza non era gradita. All’inizio del Duecento toccò a due legati papali ad Avignone: vennero assassinati e ciò scatenò la terribile crociata contro i catari della Linguadoca, guidata con fini non proprio religiosi dai nobili della Francia settentrionale.
Preso alloggio in un monastero del proprio ordine o addirittura nel palazzo del vescovo, come primo atto pubblico l’inquisitore teneva un discorso nella cattedrale, alla presenza di tutti gli abitanti.
Autodenuncia
In pratica si trattava di un avvertimento: chi è eretico, diceva, si autodenunci entro un mese e avrà il perdono. E chi eretico non è ma ha un vicino sospetto, faccia altrettanto: lo denunci.
Il sermone veniva quindi pubblicato sulla porta della chiesa perché non potesse sfuggire proprio a nessuno, neppure ai forestieri di passaggio. E l’effetto era quello sperato; l’inquisitore passava tutto il mese successivo a leggere le denunce cadute a pioggia sul suo tribunale. Non erano anonime (ma gli autori restavano sconosciuti all’interessato); ognuna veniva registrata dal notaio e vagliata attentamente per capire se avesse un fondamento o fosse calunniosa. Giordano Bruno, per esempio, nel 1593, non fu arrestato dagli sgherri inquisitoriali, ma denunciato al Senato di Venezia dal marito della donna con cui Bruno aveva una relazione. Il Senato veneziano decise poi di consegnarlo all’Inquisizione romana.
Più della metà delle denunce veniva scartata. Chi si consegnava, invece, come promesso veniva perdonato e rilasciato subito. Severe poi le punizioni (tortura compresa) per i testimoni colti a sostenere false accuse. L’inquisitore in realtà aveva il potere di interrogare e arrestare, ma per i provvedimenti più duri (carcere e tortura) serviva l’autorizzazione del vescovo.
Sesso per i prigionieri
Scaduto il mese e vagliate le denunce l’inquisitore cominciava a istruire una inchiesta preventiva, molto cauta per non ledere l’onorabilità delle persone. Raramente ricorreva all’arresto e comunque si ritenevano necessarie almeno due testimonianze per istruire l’accusa. Ma se dopo il primo interrogatorio l’imputato si rivelava "pericoloso", veniva subito imprigionato nelle celle del palazzo vescovile oppure in quelle del tribunale laico.
Le regole dell’Inquisizione prescrivevano che i detenuti venissero trattati con ogni cura, a spese della Chiesa. Con risvolti persino paradossali: poteva succedere addirittura che il prigioniero ottenesse un vino pregiato o che venisse autorizzato ad avere rapporti intimi con il coniuge. Non stupisce quindi che Galileo Galilei, illustre prigioniero dell’Inquisizione nel 1632, fosse alloggiato in un appartamento a tre stanze con vista sul Pincio e assistito da un servitore.
Processo moderno
La procedura era semplice: l’accusato veniva interrogato nel palazzo vescovile o nel monastero da una commissione composta da inquisitore, notaio e due esperti in diritto, uno dei quali poteva essere anche laico.
L’inquisitore sedeva su un seggio molto più alto e spesso scendeva a si avvicinava all’accusato alternando frasi in latino e in volgare. L’argomento veniva preso alla larga: prima si parlava della vita, del lavoro, della famiglia, poi si arrivava al tema dell’accusa. La tecnica psicologica era piuttosto raffinata: si cercava di far cadere in contraddizione l’interrogato e di spingerlo alla confessione rapidamente. Un difensore d’ufficio (di solito un avvocato laico) assisteva l’imputato. Spesso l’inquisitore era così esperto da vantarsi di saper riconoscere un eretico anche solo dall’abbigliamento, dalla postura e dallo sguardo.
Per i più ostinati però si ricorreva al carcere duro o alla tortura. Durante il periodo medievale fu poco usata, e iniziò a istituzionalizzarsi all’inizio del XIV secolo, con l’affermarsi del diritto romano. La si applicava, dietro approvazione del vescovo, quando vi erano forti dubbi e contraddizioni sulle confessioni dell’imputato.
I manuali raccomandavano che venisse fatta in maniera limitata, senza menomare la vittima in modo permanente: un medico assisteva alle sessioni di tortura per valutare che l’imputato fosse in grado di sopportarle. Nel 1253 l’accusato spagnolo Bernardo Borrel fu messo in libertà provvisoria per la durata di 15 giorni, perché ammalato, prima di riprendere gli interrogatori.
Anziani, bambini, donne incinte e malati non potevano essere torturati. Molti evitarono i supplizi simulando attacchi di mal di testa o di sciatica. Come fece il domenicano Tommaso Campanella, inquisito a Roma alla nel 1599: finse a varie riprese di essere pazzo o di avere impellenti bisogni, per rinviare più volte la tortura.
Tortura part-time
Nelle indicazioni dei manuali, nessun tipo di tortura doveva durare non più di 10 minuti, e se l’imputato non si decideva a confessare, lo si rilasciava libero e innocente. Per formulare la sentenza l’inquisitore doveva consultare una giuria di esperti di diritto che, avendo assistito al processo, avendo ascoltato la difesa, e visti gli atti processuali, davano un parere e proponevano il tipo di pena. E di solito venivano ascoltati. La sentenza quindi veniva letta pubblicamente.
Il pentimento o auto da fé
A quel punto il condannato, se nel frattempo non era fuggito come succedeva spesso, doveva innanzitutto chiedere perdono della propria colpa: quindi abiurava, cioè ammetteva la sua colpa, davanti a tutti nella cattedrale e chiedeva di rientrare nella fede cattolica. In portoghese si chiamava autos da fé (atto di fede), ed è illustrato in molti dipinti dell’epoca.
L’auto da fé, con la sua teatrale scenografia, serviva ad impressionare la gente: i condannati vestivano sai neri privi di cappuccio e alti copricapi, spesso a forma di cono, che dovevano sottolineare la loro colpa (efficaci in questo al punto da essere ripresi, nell’Ottocento, per additare al pubblico disprezzo gli studenti svogliati). A quel punto, in un’atmosfera grave e terrorizzante, veniva letta la pena: nei casi più lievi bastava il pagamento di un’ammenda in denaro, versata come elemosina, o vestire un saio con cucite sopra delle croci, come monito alla popolazione. Un’alternativa poteva essere anche l’obbligo di un pellegrinaggio in Terrasanta.
Spesso però si passava alle maniere forti: il carcere a vita, per esempio, è una pena introdotta proprio dall’Inquisizione, anche se la maggior parte delle volte non veniva scontata, e il prigioniero veniva liberato per motivi di salute, familiari oppure di buona condotta. Come successe a Ludovico Domenichi, traduttore in italiano, nel XVI secolo, di un libro di Calvino, che fu condannato all’esilio perpetuo dall’Inquisizione romana, ma di fatto si fece solamente un anno di ritiro in convento, con la libertà di entrare e uscire senza limitazioni.
Per i recidivi, il rogo
Infine il famigerato rogo, pena riservata solamente agli eretici recidivi non pentiti. In questo caso l’Inquisizione consegnava i condannati al potere laico che si incaricava di eseguire la sentenza.
L’eresia protratta, infatti, turbava anche l’ordine statale e nei codici (di diritto romano, su cui si basava la giustizia medievale) veniva classificata tra i delitti di lesa maestà e come tale punibile con il rogo. Il reato era ritenuto così grave che perfino i sovrani medievali considerati più "moderni" e tolleranti come Enrico II d’Inghilterra, Federico I e II di Germania, furono feroci persecutori d’eretici, anticipando in questo anche i tribunali inquisitoriali. Anzi, fu proprio un sovrano, Federico II di Svezia, l’inventore del rogo per gli eretici nella prima metà del XIII secolo.
Riccardo Tonani
(da "Focus" n. 81, Luglio 1999)
Pochi roghi, tante croci rosse
Quante furono le vittime dell’Inquisizione? Non è possibile avere cifre assolute, ma vediamo qualche esempio: nella Francia meridionale tra 1308 e 1323, l’Inquisizione pronunciò 930 sentenze di cui 139 assoluzioni, 132 pene che prevedevano la cucitura di croci rosse sulle vesti, 152 pellegrinaggi in Terrasanta, 307 imprigionamenti, 42 consegne al potere secolare (cioè la pena di morte), 2 esposti sulla scala per i mese, 1 esilio, 22 distruzioni di case di eretici.
Terribile Spagna. In Spagna invece, nell’arco di 200 anni (dal 1500 al 1700) ben 44 mila persone vennero processate: di queste, 820 (cioè meno del 2%) furono condannate alla pena capitale. L’Inquisizione romana tra il 1512 e 1761 mandò al rogo 97 persone. Cifre impressionanti? Niente al confronto con quelle prodotte nel nostro secolo da un’altra persecuzione per reati d’opinione: quella di Stalin un Unione Sovietica. Tra 1936 e 1938 mandò a morte più di tre milioni di oppositori.
L’Inquisizione? Sono state tre
Nella storia si sono succedute tre Inquisizioni.
Contro i catari. La prima fu istituita da Gregorio IX (Papa dal 1227 al ‘41) per combattere l’eresia dei catari. Tra i protagonisti, Bernardo Gui ("operò" a Tolosa tra il 1307 e il ‘23), che scrisse la "Pratica inquisitoriale" e Nicolau Eymerich (1320-99). Segue l’Inquisizione spagnola, istituita nel 1478 da Sisto IV su richiesta di Isabella la Cattolica. Dipendeva dalla corona di Spagna e venne abolita nel 1821.
Torquemada. Il suo principale protagonista fu il domenicano Tomas de Torquemada, che nel 1492 convinse il re a espellere ebrei e musulmani dalla Spagna (emigrarono in 200 mila).
Romana. Infine l’Inquisizione romana, simile a quella iberica, fu organizzata nel 1542 da Paolo III per combattere il luteranesimo e il calvinismo. L’Inquisizione si occupò anche di caccia alle streghe (accusate di far patti col diavolo), ma non fu l’unica: lo fecero anche i protestanti.