Card. Giorgio Grente

LA RIFORMA LITURGICA DI S. PIO V


     Il Concilio aveva anche fatti voti che si redigesse la dottrina cristiana in forma succinta, chiara, ma completa, ben convinto che nulla poteva essere più efficace per salvaguardare i fedeli dagli errori, cagionati dalle continue controversie. Si erano già pubblicati parecchi catechismi cattolici; degni di nota I catechismi di Giovanni Dietenberg (11) e di S. Canisio. L'acrimonia mostrata dai Riformati provava perentoriamente la loro necessità. Il Canisio, quantunque così moderato e cortese, venne odiosamente oltraggiato. Dietro al teologo Giovanni Wigand, che per primo diede fiato "alle trombe della divina parola contro il catechismo maledetto e blasfemo del Canisio", vennero Flacius, Hessus, Roding, Scheidlich, i quali con la più squisita garbatezza denunciarono "questa sozzura diabolica, vomitata dal cane Canisio". L'autore non poteva in realtà ricevere un omaggio più lusinghiero e decisivo.
     Ma il Canisio, come si esprime egli stesso nell'introduzione alla sua Somma della Dottrina Cristiana, "non aveva scritto da principio che per i cattolici tedeschi". I suoi libri d'un carattere personale e tutt'affatto particolare, non corrispondevano alle esigenze del Concilio. Si richiedeva un'opera promossa dalla Chiesa stessa, non solo approvata dal Papa, ma pubblicata in suo nome.
     Pio IV aveva commessa la redazione del testo ai domenicani Morini, vescovo di Lanciano, a Foscarari vescovo di Modena, a Foreiro e al segretario di San Carlo, il dotto Poggiani. Pio V mostrò verso di loro la stessa fiducia, ma volle seguire più da vicino i loro lavori, e dopo che diverse commissioni ebbero successivamente esaminato il volume, egli lo fece pubblicare nel settembre 1566 col titolo: "Catechismus ex decreto Concilii Tridentini, ad parochos, Pii Quinti Pont. Max. iussu editus" (12).
     Questo catechismo non era, come quello del Canisio, un semplice manuale-compendio a uso dei fedeli. Esso era indirizzato ai sacerdoti delle parrocchie, metteva sobriamente in rilievo il dogma e la morale, forniva loro la scienza teologica necessaria, facilitandone l'insegnamento.
     Per farci un'idea dell'immenso successo di questo Catechismo Romano, basta segnalare le invettive degli ugonotti "contro l'odiosa ed esecrabile cabala di Roma", (13). Non avevano essi ingannato il popolo travisando il senso dell'insegnamento cattolico? Alle loro frottole si opponeva ora una confutazione trionfante: l'esposizione della vera dottrina.
     Mentre essi con a capo Tilemann Hessus andavano gridando che "da cento anni in qua dalle tipografie papiste non era uscito un libro così pieno di scaltrezze", i cattolici tutti, preso coraggio, facevano proprio il motto del giureconsulto Giorgio Eder: "Questo catechismo mi ha confermato nelle mie convinzioni, e io ne provo grandissima gioia". Caldamente raccomandato da molti vescovi e sinodi provinciali (14), esso ebbe grandissima diffusione, specialmente dopo che fu tradotto in diverse lingue (15).
     Ma il Santo Padre non fu contento della sola pubblicazione di quest'opera; volle che i vescovi ne facessero oggetto dei loro insegnamenti, ed egli stesso ne diede l'esempio (16). Con una bolla del 6 ottobre 1571 rinnovò queste sue esortazioni invitando i vescovi a erigere dei sodalizi destinati all'insegna mento del catechismo.


     Pio V fece pure altre riforme volute dal Concilio di Trento. Quand'era ancora semplice religioso e cardinale, visitando dei santuari o assistendo ai divini uffici, aveva notato negligenza nel servizio di Dio e poca compostezza nei fedeli. Ricevuta dal Sommo Pontefice la facoltà di rimediare a quegli abusi, egli si mise all'opera con grande ardore; e la liturgia della Chiesa lo loda come scelto da Dio non solo per combattere i nemici del bene, ma anche per essere il restauratore del suo culto.
     Fece egli stesso la visita alle principali basiliche di Roma, ingiungendo ai canonici che le officiavano di adornarle meglio, delegò dei commissari che sorvegliassero tutte le chiese. Soppresse gli abusi che trasformavano in case profane i templi, ove si passeggiava familiarmente o si ciarlava e si scherzava ad alta voce senza rispetto al Signore, e ove i poveri accoglievano i nuovi venuti con dei gemiti e talvolta con delle ingiurie.
     Diversi editti emanati dal Papa fecero cessare in parte tali inconvenienti, e le minacce di ammende pecuniarie, di prigione ed anche d'esilio dimostrarono chiaramente che Pio V voleva essere obbedito. I disordini venivano repressi dappertutto. Avendo appreso che le primarie dame portoghesi, col pretesto di ascoltar meglio la Messa, entravano nel coro delle cattedrali, occupavano gli stalli dei canonici e si collocavano fin presso i gradini dell'altare, ordinò subito al Cardinale Infante del Portogallo di eliminare un abuso così strano.
     Si sa che la riforma del canto liturgico fu cominciata dai Papi Marcello Il e Pio IV.
     Il primo, disgustato per l'introduzione nelle chiese della musica profana e per il fragore sempre maggiore che vi si faceva, risolse di proscriverla; ma non avendo regnato che soli ventidue giorni, non poté mandare ad effetto il suo disegno.
     Il secondo istituì una commissione cardinalizia, che favorisse la composizione di musica sacra, conforme alle decisioni del Concilio. L'Alessandrino, che aveva data al Palestrina tutta la sua approvazione, divenuto Papa lo nominò maestro della cappella pontificia, e lo aiutò grandemente nel nobile compito di ridonare la musica di chiesa la sua nota sacra.
     La riforma del culto ne richiedeva un'altra più urgente e delicata: quella del breviario. Da circa venticinque anni numerosi Sinodi la reclamavano, e l'imperatore Ferdinando I, il re e i vescovi di Francia l'avevano già chiesta al Concilio.
     Questa vecchia questione nel secolo XVI aveva subito molte vicende. Leone X si era bensì occupato di risolverla, ma, vinto dai suoi pregiudizi e da quelli della sua corte, non aveva fatto nulla. Egli, che si era presi per segretari gli umanisti Sadoleto e Bembo, affidando al Ferreri la composizione di inni, non seppe fargli altra raccomandazione se non di scrivere in un latino elegante e puro. Il poeta badò infatti assai al ritmo armonioso e all'impeccabilità della lingua; ma vi comparvero fra una strofa e l'altra Febo, l'Olimpo, Stige, Bacco ed altre divinità mitologiche. Clemente VIII bandi questa vecchia mitologia, giustamente preferendo alle regole della vera latinità le tradizioni degli antichi Padri. A sua richiesta il ministro generale dei francescani, Francesco Quignonez, compose dal 1526 al 1539 un genere di ufficio che "conteneva in primo luogo una lettura di tratti tolti dalla Bibbia, e secondariamente una lettura di storia ecclesiastica" (17).
     Paolo IV non volle mai servirsi di questa edizione, e ne proibì la ristampa. Egli aveva intenzione di estendere a tutta la Chiesa il breviario riformato dei teatini, ma fu sopraggiunto dalla morte. Nel 1562 il Concilio di Trento affrontò la questione, ma finì di lasciare alla Santa Sede la cura di scioglierla (18). Pio V più fortunato dei suoi predecessori, ebbe l'onore di dare il suo nome a questa grande opera, e di restituire così alla Chiesa l'unità e la purezza della preghiera pubblica.
     Nella bolla Quod a nobis, promulgata il 9 luglio 1568, enumerò tutti i motivi che lo indussero alla riforma e i principi a cui egli si era ispirato. Molti vescovi e comunità con delle aggiunte proprie avevano mutilato o alterato l'insieme armonico dell'antico breviario, e così si trovava praticamente abolita quella santa comunione che consiste nel lodar e pregare Iddio con le stesse formule. Pio V riprese quindi volentieri l'idea di Paolo IV, ch'era stata accolta dal Concilio di Trento. Fissò bene gli obblighi e le proibizioni, e permise che fossero eccettuate le sole chiese o comunità religiose che da duecento anni almeno si servivano di un breviario approvato dalla Santa Sede. Così la maggior parte degli ordini religiosi conservarono il loro proprio ufficio, e la chiesa di Milano il suo rito ambrosiano.
     Il nuovo breviario fu pubblicato nel 1568 dalla stamperia di Paolo Manuzio, come il Catechismo Romano. Senza voler entrare in tutti i suoi particolari, vogliamo segnalare le idee principali. Il Papa soppresse d'un tratto le aggiunte, come i salmi graduali, l'ufficio dei morti e della SS.ma Vergine. I consultori della commissione non avevano osato proporre questa soppressione. Pio V fu di parere che per voler il più si finiva di non ottenere il meno, e che le continue aggiunte avevano fatto si che molti sacerdoti lasciassero tutto; onde pensò di renderle facoltative. Rimise in vigore gli uffici delle domeniche e delle ferie e abolì le feste di molti santi; adottò la Volgata come testo per i salmi e per le lezioni della Sacra Scrittura di ogni giorno e conservò in generale le antifone e i responsori dell'ottavo secolo, introducendo però notevoli modificazioni nelle lezioni delle feste e dei santi.
     Il clero cattolico accolse rispettosamente il nuovo breviario. L'Italia, la Spagna, il Portogallo l'adottarono subito. La Francia non cominciò a servirsene che dal 1580, a istanza dei gesuiti; ma incontrò ancora molte opposizioni. Il Capitolo di Notre-Dame di Parigi, nonostante la richiesta del vescovo, non volle accettano.
     I successori di Pio V non si ritennero legati dalla formula della bolla Quod a nobis, la quale dichiarava "che non si sarebbe più potuto né cambiare né aggiungere o togliere qualsiasi cosa". Gregorio XIII e Sisto V, quantunque ammiratori di Pio V, vi fecero delle modificazioni che provocarono le critiche del Bellarmino e del Baronio e le varianti di Clemente VIII, Urbano VIII e Benedetto XIV. Ma come succede alle grandi cose che finiscono sempre di trionfare, l'opera di Pio V, che nei suoi elementi primitivi si era conservata intatta, venne rimessa nella dovuta stima, e la riforma di Pio X, ispirata allo stesso spirito e regolata dalla medesima saggezza, ha richiamata su di essa l'attenzione e il favore universale.
     La revisione del breviario esigeva quella del messale e della liturgia. Nella Chiesa occidentale vi erano allora in uso diversi riti: il rito antico romano, il gallicano, il milanese o ambrosiano e il mozarabico spagnolo. Questa diversità era andata man mano aumentando. Le cerimonie differivano da una nazione all'altra, talvolta anche tra due diocesi limitrofe, fino al punto da compromettere almeno apparentemente l'unità.
     Alla commissione cardinalizia della riforma del breviario furono perciò concesse più ampie attribuzioni.
     Nel 1570 il lavoro era terminato, e una costituzione apostolica promulgò il nuovo messale, rinnovando gli obblighi e le dispense già enunciate nella bolla Quod a nobis. Basterà accennare a qualche particolare, per avere un'idea delle mutazioni introdotte. È Pio V che ha reso obbligatoria la recita, in principio della Messa, del salmo Introibo e del Confiteor, e come epilogo del sacrifizio l'"intensa e sostanziosa" invocazione del Placet. È lui che ha inserito il Suscipe, sancta Trinitas, regolati i riti dell'Hanc igitur e del Per ipsum, precisata la formula e le cerimonie della benedizione finale, e imposta la recita dell'inizio del Vangelo di S. Giovanni, In principio erat Verbum. Molti sacerdoti dopo il sec. XIII lo recitavano già per divozione al cominciare del loro ringraziamento. "Lo pronunciavano a voce alta, perché così voleva la divozione del popolo... I fedeli ci tenevano tanto, che in certi legati di messe facevano speciale menzione di questa lettura, come una delle condizioni da adempirsi".
     L'Italia e la Spagna l'adottarono volentieri; in Francia il messale seguì le sorti del breviario. I sinodi provinciali di Rouen, di Reims e di Bordeaux, quelli di Bourges, di Tolosa, di Narbona e specialmente della Bretagna furono i primi a conciliare le loro usanze con le disposizioni pontificie; e anche la casa reale di Francia, a partire dal 1583, introdusse nelle sue cappelle la liturgia romana.

Card. Giorgio Grente
Il pontefice delle grandi battaglie
San Pio V

Edizioni Paoline, Roma 1957, p. 187-193




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