Note a "Breve esame critico del «Novus Ordo Missæ»"
1) «Le preghiere del nostro Canone si
trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo)
... La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all'epoca
in cui si sviluppava per la prima volta dalla piú antica
liturgia comune.Essa serba ancora il profumo di quella liturgia
primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava
di poterspegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri
padri si riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo
come aloro Dio [cfr. Pl. jr., Ep. 96]
. Non vi è,
in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la
Messa romana» (A. Fortescue).
«Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio
Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera
eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa
vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degliortodossi,
ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in
qualche misura il senso della tradizione,gettarlo a mare
equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni
pretesa di rappresentare mai piú la vera Chiesa Cattolica » (P.
Louis Bouyer).
2) In nota, per una tale definizione, si
rimanda a due testi del Concilio Vaticano II. Ma a leggere quei
due testi non si trova nulla che giustifichi tale definizione.
Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona
cosí: « ...I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il
ministero del vescovo, in modo che... nelle sacre celebrazioni
agiscano come ministri di Colui che ininterrottamenteesercita la
funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia... E
soprattutto con la celebrazione della Messa offrono
sacramentalmente il Sacrificio di Cristo».
Ed ecco l'altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum
Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo.
Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta
risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere
rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l'assemblea nella
persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e
di tutti gli astanti».
Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la
suddetta definizione.
Notiamo poi l'alterazione radicale, in questa definizione
della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum
Ordinis, 1254): «Est ergo Eucharistica Synaxis centrum
congregationis fidelium...». Fatto sparire fraudolentemente il
centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha
usurpato il posto.
3) Cosí il Tridentino sancisce la Presenza
Reale: «Principio docet Sancta Synodus et aperte et
simpliciterprofitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento
post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum
verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can.
1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB,
874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente(De
sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB,
nn. 937a fino a 956) e chiaramente sintetizzata in novecanoni:
1. La Messa è vero, visibile
sacrificio - non simbolica rappresentazione - «quo cruentum
illud semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius
salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie
committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
2. Gesú Cristo Nostro Signore «sacerdotem
secundum ordinem Mechisedech se in æternum [Ps. 109, 4]
constitutum declarans, corpus et sanguinem suum sub specibus
panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem rerum symbolis
Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut
sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio
successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: Hoc
facite in meam commemorationem [Lc. 22, 19; I Cor.
11, 24] uti semper catholica Ecclesia intellexit et docuit». (DB,
ibid.). Il celebrante, l'offerente, il sacrificatore è il
sacerdote, a ciò consacrato, non il popolo di Dio, l'assemblea.
«Si quis dixerit, illis verbis: Hoc facite etc.
Christum non instituisse Apostolos sacerdotes, aut non ordinasse,
ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et sanguinem suum:
anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
3. Il Sacrificio della Messa è un
vero sacrificio propiziatorio e NON una «nuda commemorazione del
sacrificio compiuto sulla croce». «Si quis dixerit; Missæ
sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones aut nudam
commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem
propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et
defunctis, pro peccatis, pnis, satisfactionibus et aliis
necessitatibus offeri debere, a.s.» (Can. 3; DB, 950).
Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon Missæ
errores continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB,
953) e il canone 8: «Si quis dixerit Missæ, in quibus solus
sacerdos sacramentaliter communicat, illicitas esse, ideoque
abrogandas, a.s.» (DB, 955).
4) Ora è superfluo asserire che, se venisse
negato un solo dogma definito, crollerebbero ipso facto
tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il principio stesso della
infallibilità del supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o
conciliare che sia.
5) Si dovrebbe aggiungere anche l'Ascensione
ove si volesse riprendere l'Unde et memores, che d'altronde non
accomuna ma nettamente e finemente distingue: ...«tam beatæ
Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in clum
gloriosæ Ascensionis».
6) Tale spostamento di accento è
riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre
nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione della
sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio
satisfattorio era applicato.
7) Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI
condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della
«transignificazione» e «transfinalizzazione». «...aut
ratione signi... ita instare quasi symbolismus, qui nullo
diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam
exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi inhoc
Sacramento... aut de transubstantiationis mysterio disserere quin
de mirabili conversione totiussubstantiæ panis in corpus et
totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur
Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola transignificatione
et transfinalizatione, utaiunt, consistant» (A.A.S.
LVII, 1965, p. 755).
8) L'introduzione di nuove formule, o di
espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili
e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco,
non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una
inscindibileunità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus
spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente
denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI
premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque
modusloquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis
utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide altissimarum rerum
suboriantur opiniones»; cita Sant'Agostino: «Nobis tamen ad
certam regulam loqui Fas est, ne verborum licentia etiam de rebus,
quæ significantur impiam gignant opinionem» (De Civ. Dei,
X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem
Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti
munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non
semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte
servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu novæ
scientiæ immutare præsumat... Eodem modo ferendus non est
quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium
Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit»
(A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
9) In netta contraddizione con quanto
prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II.
10) Una volta (n. 259) è riconosciuta la
sua funzione primaria: «Altare, in quo sacrificium crucis sub
signis sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra molto per
eliminare gli equivoci dell'altra costante denominazione.
11) «Separare il Tabernacolo dall'altare
equivale a separare due cose che in forza della loro natura
debbono restare unite» (Pio XII, Allocuzione al Congresso
Internazionale di Liturgia, Assisi - Roma 18-23 settembre
1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
12) Raramente è usata, nel Novus Ordo,
la parola «hostia», tradizionale nei libri liturgici con il suo
preciso significato di «vittima». Ciò rientra nel
sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti
di «cena» e di «cibo».
13) Per il consueto fenomeno di
sostituzione e di scambio di una cosa per l'altra, la Presenza
Reale viene equiparata alla presenza nella parola (n.
7, 54). Ma questa è in verità di tutt'altra natura perché non
ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile,
obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne
fa nel Sacramento.
Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum
alloquitur... Christus per verbum suum in medio fidelium præsens
adest» (n. 33, , cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa
che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di
Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla
condizione spirituale dell'individuo e limitata nel tempo.
L'errore non è senza la piú tragica conseguenza: l'affermazione,
o l'insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all'usus
e finisca insieme con esso.
14) L'azione sacramentale della istituzione
è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a
mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e
del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica
separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del
Sacrificio eucaristico (cfr. lintero capitolo I della Parte
II - «Il Culto Eucaristico» - della Mediator Dei).
15) Le parole della Consacrazione, quali
sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere
valide in virtú dellintenzione del ministro. Possono non
esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum o piú
precisamente in virtú del modus significandi che avevano finora
nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non
avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si
affideranno al Novus Ordo al fine di «fare
ciò che fa la Chiesa» consacreranno validamente? È
lecito dubitarne.
16) Non si dica, secondo il noto
procedimento della critica protestante, che queste espressioni
appartengono a quello stesso contesto scritturistico. La Chiesa
ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per
rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti
testi esprimono.
17) Di contro a luterani e calvinisti che
affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò
offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis theologiæ
dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes
sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ.
Christus est quidem principalis minister. Fideles mediate, non
autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons.
Trid. Sess. XXII, Can. 2).
18) Notiamo una innovazione impensabile e
che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in
paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè
di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per
il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36, nota
28).
19) P. Roquet, O.P., alle Domenicane di
Betania a Plesschenet.
20) In alcune traduzioni del Canone romano,
il «locus refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un
semplice stato («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora,
della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
21) In tanta febbre di decurtazione, un
solo arricchimento: l'omissione, menzionata nell'accusa
dei peccati al Confiteor...
22) Alla conferenza stampa in cui fu
presentato l'Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di
pura fede razionalistica, parlò di convertire in «Dominus tecum»,
«Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine
populo», «...perché non vi sia nulla che non
corrisponda a verità ».
23) A questo proposito noteremo
marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti
a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di
comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante questa.
24) Che si è voluto presentare come «canone
di Ippolito» mentre di quel canone serba appena qualche
reminiscenza verbale.
25) Gottesdienst, n. 9, 14 maggio
1969.
26) Si pensi, per ricordare solo la
bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime,
istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione del
celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già
un rito completo in sé stessa, delle offerte alla roscomidia;
alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle
offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie
Angeliche (che, nell'Entrata col Vangelo sono addirittura
evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si
identifica il coro nel Cherubicon); alla iconostasi che
nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo; alla
consacrazione celata, evidente simbolo dell'Inconoscibile a
cui l'intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante
versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione
amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e
profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le
Specie; all'atteggiamento essenzialmente contemplativo del
popolo.
Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni,
durino piú di un'ora, e le costanti definizioni che vi si
trovano («tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi,
celesti, vivificanti misteri », ecc.) bastino a dir tutto.
Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni
Crisostomo che in quella di San Basilio, come il
concetto di «cena» o di «banchetto» appaia
chiaramente subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era
nella Messa romana.
27) Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma
Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut
stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum,
quæ inimicus homo... in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ
Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.)... quam
alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit
eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se
coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873).
28) «Ad sacræ liturgiæ fontes mente
animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum
disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum
conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ
usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius
dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile
est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut
exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari
velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro
semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis
prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita
conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos
passus est, cruciatus... Hæc enim cogitandi agendique ratio
nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem,
quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque
multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere,
cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno
animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum
evigilans semper evistat fidei depositi custos sibi a
Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator
Dei, I, 5).
29) «...Non ci illuda il criterio di
ridurre l'edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per
la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali
e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo
le buone...» (Paolo VI, Ecclesiam suam).
30) «Un fermento praticamente
scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia
in Cena Domini, 1969).
31) «Vi sono anche tra noi quegli «schismata»,
quelle «scissuræ» che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo,
oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia» (cfr.
Paolo VI, ibid.).
32) È noto a tutti come il Concilio
Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si
vantarono di esserne i padri; coloro che - mentre il Sommo
Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla -
ne partirono decisi a «farne esplodere» il contenuto in sede di
applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú
parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato,
attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra
Liturgia, una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va
dagli aspetti solo apparentemente formali (latino, gregoriano,
soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali
consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo
tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo
psicologicamente forse ancora piú catastrofico, nei campi della
disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente,
insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede
Apostolica.