Che cosa si pensava nel medioevo a proposito dei poteri e doveri del principe
Alla ricerca del Re ideale
Chi è il vero re? Come deve comportarsi nei confronti dei sudditi? In che modo può applicare la giustizia? Quali doti, insomma, deve possedere?
Tra il IX e il XII secolo molti pensatori affrontano questo fondamentale problema. Per molti di loro il re non può accontentarsi di essere depositario di tutto il potere, ma essere anche un concentrato di tutte le virtù
Spesso, nell’organizzazione delle civiltà più antiche, lo storico può individuare una forma disposta secondo un rigoroso ordine gerarchico con al vertice un capo. Noi chiamiamo monarchia una società di questo tipo e "re" colui che ne è la testa. All’origine, questo re-capo non solo riveste un carattere sacrale, ma concentra in sé tutti quanti i poteri. Quasi contemporaneamente a questo genere di capo cominciano a manifestarsi dei tentativi volti a limitarne il campo d’azione. I primi sforzi per impadronirsi dei poteri del re o per parteciparvi, vennero effettuati dai detentori del potere militare e della forza economica (che in queste società, del resto, sono spesso confusi), guerrieri e ricchi proprietari. I romani abolirono prestissimo la monarchia, per sostituirle un’oligarchia cui dettero il nome di respublica, e per molto tempo odiarono persino il nome di re.
Sembra inoltre che in queste antiche società la nascita della monarchia segni il passaggio da una semplice memoria, alimentata dai documenti sparsi (iscrizioni, tavolette, ecc.), dai miti (per esempio, quello di Gilgamesh, re di Uruk) o dai monumenti, alla concezione e alla costruzione di una vera e propria storia, spesso leggendaria per quel che concerne le sue origini tradizionali, ma capace di intessere attorno al re una trama ininterrotta e coerente, grazie al sistema monarchico che tutto riconduce al sovrano e alla successione dei re — spesso rafforzata da un principio dinastico.
La monarchia offre, contemporaneamente spiegazione e narrazione, le due facce complementari della storia. Pierre Gilbert ha dato una dimostrazione abile e sottile insieme di questa contemporaneità nella nascita della monarchia e della storia per quel che concerne l’antico Israele, con riferimento ai primi re, Saul, David e Salomone.
Altri s’impegnarono in modo ancor più appassionato nel controllo delle prerogative regie in campo religioso: fu questo l’atteggiamento dei preti. Ai primi del VII secolo Isidoro di Siviglia, arcivescovo e studioso, rifacendosi all’etimologia latina (rex: re; regere: dirigere; recte: drittamente), pretendeva che un re debba governare "drittamente" (rex a recte regendo), far camminare "drittamente" i grandi, i funzionari e i sudditi. Il re non si accontenta di essere colui che accentra in sé tutti quanti i poteri, deve essere un concentrato di tutte le virtù. A questo modello, tra il IX e il XIII secolo (che segna il limite di questo nostro studio), furono dedicate delle opere specifiche, gli specula principum.
I chierici che hanno redatto questi trattati miravano innanzi tutto a evitare che il carattere "sacro" dei sovrani si risolvesse in un carattere divino o sacerdotale della funzione regale. Il re doveva essere soltanto l’eletto designato da Dio, colui che nella tradizione ebraico-cristiana viene unto all’atto della consacrazione (la fissazione del numero dei sacramenti in sette, impostasi nell’occidente del XII secolo esclude dal novero di essi la consacrazione del sovrano).Lo sforzo compiuto nel XII e nel XIII secolo da alcuni chierici per fare del re "l’immagine di Dio" ebbe un successo solo relativo. Il tentativo di farne un "re sacerdote" (rex et sacerdos) e di dargli come modello biblico Melchisedech "re di Shalem" e "sacerdote del sommo Dio" (Genesi XIV, 18) non ebbe grandi possibilità di affermarsi né nella Bibbia né nel cristianesimo né nell’ideologia cristiana dell’occidente medievale, nonostante gli sforzi effettuati in tal senso da alcuni chierici al servizio dell’imperatore.
Dalla volontà dei preti di tenere il re lontano dalla condizione sacerdotale risulta chiaramente come tanto l’antico clero ebraico quanto la chiesa dell’occidente medievale mirassero a ottenere dal sovrano l’impegno solenne a professare e a difendere la fede ortodossa e, in particolare, a mettere la propria forza al servizio della chiesa. Fu questo l’oggetto principale delle promesse e, ben presto, dei giuramenti che i re d’occidente dovettero pronunciare a partire dall’età carolingia (VIII secolo). Infine, la limitazione dei poteri del sovrano doveva impedirgli di trasformarsi in tiranno e di passare dalla parte del male, del diavolo. Anche i re, dunque, avevano dei doveri, innanzi tutto verso Dio, i preti e la chiesa, quindi verso i loro sudditi, il loro popolo.
Gli scritti in cui, sin dai tempi più remoti delle monarchie orientali, i chierici esprimevano così i compiti del sovrano, vertevano tanto sul rispetto di certi riti (come nella legge mosaica), quanto, soprattutto, sull’esercizio delle virtù sia personali sia pubbliche. Per ricordare la Bibbia soltanto (riferimento ideologico d’obbligo nell’occidente medievale), vorremmo porre l’accento sul trattatello d’etica regale inserito nel Deuteronomio (XVII, 14-24). Questo testo, che più avanti vedremo "funzionare" ai tempi di san Luigi, nonostante le proibizioni ai sovrani in esso contenute, offre un’immagine ottimistica della regalità e della persona del re. In compenso, al momento dell’istituzione regale, quando Yahvé risponde "al popolo che gli chiedeva un re", l’antico testamento traccia della regalità un’immagine estremamente pessimistica, vedendo nel sovrano un inevitabile tiranno che renderà gli ebrei "suoi schiavi" (I Samuele, VIII, 10-18). Così la Bibbia offriva, come sempre, un dossier a favore e un dossier contro la regalità. E tuttavia ne aveva definito un criterio: la regalità valeva quel che valeva il re. Istruire il sovrano, proporgli un’etica regale, ecco una delle più importanti funzioni del sacerdozio.
Nel IV secolo, quando il principe diventò cristiano, si rese necessario precisare la dottrina. Agostino lo fece soprattutto nel capitolo XXIV del libro V della Città di Dio, che l’Anton ha definito "il primo specchio dei principi cristiani". In esso il vescovo di Ippona insiste su "la pace, l’ordine, la giustizia" (pax, ordo, justicia) quali fondamenti della monarchia e, in base alla tradizione romana dell’imperator felix, definisce le virtù che fanno del principe cristiano un buon principe. Alla svolta tra il VI e il VII secolo, papa Gregorio Magno, anche egli preoccupato dal problema del re e della regalità, porrà l’accento soprattutto sull’importanza della giustizia come ideale della monarchia e virtù essenziale del re.
Con l’età carolingia fecero la loro apparizione degli opuscoli interamente destinati a ricordare ai sovrani le virtù inerenti alla loro "funzione" (officium) o al loro "ministero" (ministerium) e necessarie innanzi tutto a giustificarne l’ascesa al trono, o piuttosto la cerimonia religiosa che rendeva ormai effettiva la scelta operata da Dio quanto alla loro persona. Se, in genere, questa scelta era conforme a quella effettuata dagli uomini all’interno della famiglia regale, era anche possibile interinare il passaggio da una famiglia all’altra, come il sostituirsi dei Carolingi ai Merovingi verso la metà dell’VIII secolo. Ma, come ad esempio in Francia, si venne a stabilire un diritto ereditario a favore del primo (o del più prossimo) discendente maschio del sovrano defunto. E fu nell’816, a Reims, che le due cerimonie (quella dell’unzione e quella dell’incoronazione) vennero a fondersi in occasione della consacrazione di Ludovico il pio. Possiamo del resto osservare che gli ordines, cioè i testi utilizzati per la consacrazione dei re cristiani del medioevo, testi propriamente liturgici o dossiers, prontuari destinati a esser d’aiuto nello svolgimento della cerimonia, costituiscono un tipo particolare di specula principum.
Gli autori degli specula principum carolingi del IX secolo, che appartenevano agli alti gradi della gerarchia ecclesiastica, hanno proposto ai sovrani del tempo i modelli di certi re dell’antico testamento, come David (soprattutto), Salomone, Ezechia, Giosia eccetera. Essi si soffermano specialmente sulle virtù che convengono in particolar modo ai sovrani (prima fra tutte la giustizia, ma anche la sapienza, la prudenza, la pazienza, la misericordia, l’umiltà, l’amore per la rettitudine, la clemenza, la pietà, e così via). Infine, insistono sul dovere imperioso, che il sovrano ha, di proteggere le chiese e il clero.
L’accademia politica di Luigi IX
Alla metà del XII secolo, il Policraticus di Giovanni di Salisbury (1195), che è il primo grande trattato di scienza politica del medioevo, rappresenta una svolta. Esso fu scritto in Inghilterra da un chierico di elevatissima statura intellettuale, formatosi all’università di Parigi. Alto funzionario ecclesiastico della curia pontificia, quindi segretario di Teobaldo, arcivescovo di Canterbury, Giovanni di Salisbury divenne amico di Thomas Becket, si rifugiò per qualche tempo a Reims presso il benedettino Pietro di Celle, suo intimo amico, abate della famosa abbazia di San Remigio (ove era custodita la Santa Ampolla, che veniva adoperata in occasione della consacrazione dei re di Francia) e concluse la sua carriera come vescovo di Chartres, dal 1176 al 1180, anno della sua morte.
Notevole è il contributo del Policratius all’ideologia regale del medioevo. In esso Giovanni di Salisbury utilizza l’Institutio Traiani, un opuscolo falsamente attribuito a Plutarco ma con ogni probabilità compilato in Roma intorno al 400. Questo pseudomanuale scritto per l’educazione di Traiano, in realtà è uno speculum principum. In particolare, per la prima volta nell’occidente cristiano (nel XII secolo), vi troviamo la metafora organicista che considera la società politica come un corpo umano di cui il re è la testa. Ma, aldilà dell’Institutio Traiani, il Policraticus ha anche lanciato lo slogan del principe sapiente, intellettuale (rex illetteratus quasi asinus coronatus), cioè "un re illetterato è come un asino con la corona") e, soprattutto, ha fornito di solidissime basi l’ideologia monarchica (che Giovanni aveva visto all’opera nella nascente burocrazia delle corti d’Inghilterra e pontificia). Giovanni di Salisbury era uno degli uomini più colti del tempo, forse il miglior rappresentante della rinascita umanistica del XII secolo.
Influenzato dal "naturalismo" delle scuole di Parigi e di Chartres, egli analizzò la società (e il re che ne era la testa) come un insieme organizzato. Inoltre, introdusse nella discussione teologica e filosofica il tema del tirannicidio che avrebbe poi svolto un ruolo di primo piano nella scienza politica (e nelle realtà politiche) tanto alla fine del medioevo quanto nell’età moderna. Infine, analizzò con occhio particolarmente critico il fenomeno della corte che si andava costituendo e che fra il XII e il XVIII secolo sarebbe stata destinata a un così grande sviluppo. Il sottotitolo del Policraticus è sive de nugis curialium ("o delle futilità dei cortigiani").
Il duecento vede una nuova fioritura di specula principum rinnovati dal modello del Policraticus e dal contemporaneo processo di sviluppo di monarchie in rapida evoluzione verso forme statali burocratiche. Certamente, nessuno visse quest’arricchimento con maggiore intensità del re di Francia Luigi IX, il futuro san Luigi. Avendo deciso prestissimo (era diventato re nel 1226, a dodici anni) che avrebbe incarnato nel modo più perfetto possibile il re cristiano ideale (decisione che sarebbe poi durata fino alla morte), egli provocò indirettamente e favorì direttamente la redazione di numerosi specula principum nonché di ordines (manuali della consacrazione) che gli fossero d’aiuto in questo compito appassionato.
Pertanto, si è potuto parlare di un’"accademia politica" di san Luigi, il cui cuore era il convento dei jacobins, il celebre convento dei domenicani di Parigi. Proprio su invito di Umberto di Romans, gran maestro dell’ordine dal 1234 al 1263, il convento avrebbe impegnato una équipe nella redazione di specula principum, o piuttosto di un vasto trattato di politica. Di quest’ultimo farebbe parte l’opera, già redatta intorno al 1247-1248, del domenicano Vincenzo di Beauvais, a quel tempo lettore presso l’abbazia cistercense di Royaumont e già in rapporti con il re, il De eruditione filium regalium (o nobilium) dedicato alla regina Margherita per l’educazione del giovane Filippo — il futuro Filippo III — allora figlio cadetto della coppia regale.
Un’altra parte di questo trattato consisterebbe nel De morali principis institutione, scritta fra il 1260 e il 1263 da Vincenzo di Beauvais che aveva allora abbandonato Royaumont e che dedicò l’opera a Luigi IX e, congiuntamente, a suo genero Tibaldo, re di Navarra e conte di Champagne. Infine, una terza parte sarebbe costituita dal De eruditione principum, poi falsamente attribuita a Tommaso d’Aquino (da cui il nome di Pseudo-Tommaso con cui gli studiosi moderni indicano l’autore) e forse redatto dallo stesso Vincenzo di Beauvais o da un altro celebre domenicano, Guglielmo Peyraut.
A questi tre trattati d’autore domenicano vanno aggiunti la Morale somnium Pharaonis sive de regia disciplina, redatto probabilmente fra il 1233 e il 1260 dal cistercense Giovanni di Limoges per Tibaldo di Navarra, e lo speculum che più ci interessa in questa sede, l’Eruditio regum et principum del francescano Gilberto di Tournai, scritto nel 1239 per san Luigi. Negli Insegnamenti che san Luigi compose nell’ultimo periodo della sua vita per il figlio Filippo, il futuro Filippo III l’Ardito, va visto infine un vero e proprio speculum principum dovuto al re stesso.
Di Gilberto (o Guiberto) di Tournai sappiamo soltanto che fu studente e maestro all’università di Parigi, che ai suoi tempi venne considerato una delle glorie intellettuali del suo ordine e che, oltre a vari trattati educativi, redasse dei sermoni destinati soprattutto alle crociate. Probabilmente, partecipò alla spedizione di san Luigi in Egitto e in Terrasanta (1248-1234), e dall’amicizia nata fra lui e il re sarebbe nato il nostro trattato.
L’Eruditio regum et principum consiste in tre lettere inviate a san Luigi, l’ultima delle quali informa di esser stata terminata a Parigi nell’ottava di san Francesco, cioè l’11 ottobre 1239. Le tre lettere trattano di quattro princìpi "necessari ai prìncipi" secondo l’Institutio Traiani: la reverenza nei confronti di Dio (reverentia Dei), l’autodisciplina (diligentia sui), la disciplina nei confronti dei potenti e dei dignitari di corte (disciplina potestatum et officialium), l’amore e la protezione dovuti ai sudditi (affectus et protectio subditorum).
Gli esempi dei re biblici
La prima lettera si compone di parti. La prima, di quattro capitoli, dedicata alla reverentia Dei, evidenzia certe strutture intellettuali e culturali dei chierici del primo duecento, il pensiero dialettico (la dimostrazione è condotta prima positivamente, esponendo la reverentia Dei, poi negativamente, analizzando l’irriverentia Dei) e il ricorso a un duplice sistema di riferimenti culturali, quello cristiano (specie veterotestamentario) e quello pagano. Il metodo è quello tradizionale, consistente nell’accumulare delle auctoritates a favore della tesi che si intende sostenere. In tal caso, le informazioni tratte dalla letteratura pagana (43,68%) sono quasi altrettanto numerose di quelle desunte dalla Bibbia (41,76%) e dai padri della chiesa (12,63%). La "rinascita" del XII secolo non è lontana.
L’autore mostra innanzi tutto, "con esempi del nuovo e del vecchio testamento, che l’irriverenza nei confronti di Dio da parte dei prìncipi provoca la rovina dei regni e dei principati". Quindi significa "la stessa cosa con l’aiuto delle storie dei re pagani". Notiamo tuttavia la contrapposizione: gli esempi biblici sono testimonianze di verità eterne, quelli pagani soltanto testimonianze "storiche". La storia è il campo dell’incerto, dell’incostante e ha come simbolo la ruota della fortuna. Il terzo capitolo fa riferimento a Saul, morto in modo ignominioso con i suoi figli, e ai re Ela, Zamri, Benadad, Joas, Geroboamo eccetera, tutti quanti morti di morte violenta. In compenso, gli imperatori cristiani Costantino e Teodosio hanno mostrato a Dio la loro reverenza, il primo rifiutando di occupare il posto d’onore al concilio di Nicea, il secondo espiando il suo crimine con l’eseguire con umiltà e in pubblico la penitenza impostagli da sant’Ambrogio.
L’autore ricorda infine l’assassinio di Cesare, usurpatore dell’impero, l’avvelenamento di Tiberio e di Claudio, l’uccisione di Caligola, le morti violente di Vitellio, Galba e Ottone e soprattutto la miserevole fine degli imperatori che hanno perseguitato i cristiani: Nerone, Domiziano, Aureliano, Commodo, Pertinace, Macrino, Marc’Aurelio, Alessandro Severo, Massimiano, Giuliano, Gordiano, Filippo, Decio, Gallieno "e altri che non sono neanche degni di essere nominati". Così l’impero romano è stato soltanto una successione di morti violente, castigo divino di imperatori indegni, una lunga ma ineluttabile marcia verso la rovina e l’annientamento, o piuttosto il trasferimento ad altri della sua potenza.
I dodici capitoli della seconda parte della prima lettera, che è dedicata alla disciplina del re nei confronti di se stesso (diligentia sui), rappresentano, all’interno dello speculum principum che costituisce l’insieme del trattato, uno speculum principum particolare, più personale, e inoltre centrato sulla persona regale. Lo sviluppo del tema della diligentia sui, dei doveri personali del re, si presenta come un commentario dello speculum principum contenuto nel XVII capitolo del Deuteronomio. In conformità con le abitudini dell’esegesi biblica del medioevo, Gilberto di Tournai propone un’interpretazione priva di ogni fondamento esegetico scientifico e storico. Egli volge infatti nel senso che più gli conviene delle citazioni bibliche che, come dice Alano di Lilla sul finire del XII secolo, hanno "un naso di cera".
Le dodici preposizioni, "Il re non moltiplicherà i suoi cavalli", "non ricondurrà in Egitto il suo popolo", "non avrà più (o molte) spose", "non possederà grandi tesori in oro e in argento", "salito sul trono, leggerà e mediterà il Deuteronomio", "riceverà dai preti il testo della legge", "imparerà a temere il Signore Dio suo", "rispetterà i termini della Legge", "il suo cuore non lo farà gonfiare d’orgoglio al di sopra dei suoi fratelli", "non si girerà né a destra né a sinistra", "vivrà a lungo" e infine "aspirerà alla vita eterna", sono pretesto dei commenti nei quali affiorano sia dei luoghi comuni del pensiero cristiano sia delle preoccupazioni del tempo di Gilberto di Tournai.
L’invito a non moltiplicare i cavalli si trasforma in diatriba contro la caccia. Testo sorprendente in cui, partendo da precedenti condanne della caccia per quel che concerne vescovi e chierici nonché da rare allusioni alla sua inutilità o nocività se esercitata dai re (in Giona d’Orléans nel IX secolo e in Giovanni di Salisbury, al quale si ispirò Gilberto di Tournai, nel XII), si sviluppa un’antropologia regia in cui la caccia appariva come un gioco puerile per un sovrano. Del resto, la condanna che segue (tradizionale) dei giochi d’azzardo (a dadi e altri) corrisponde più a un sistema sociale di valori che non a ragioni di tipo religioso e morale. Tutto ciò che è puerile, che potrebbe avvicinare il re a un bambino, va evitato. Ma questa diatriba è contraria alla pratica della caccia nel medioevo.
I re hanno cercato di farne un loro monopolio, si sono creati vaste riserve forgiando il concetto giuridico-geografico di "foresta" e si sono dedicati con passione a quello che è concepito come lo sport regale per eccellenza.
Stranamente, san Luigi è l’unico re di Francia per il quale non esiste nessun documento in grado di dimostrare che egli abbia mai praticato la caccia. Ed è noto che detestava il gioco d’azzardo e che a volte, dopo il suo ritorno dalla Terrasanta, montò in collera e legiferò contro i giocatori.
Il terzo capitolo è un attacco alla poligamia. Anche se non vi è in esso la benché minima allusione a fatti recenti o contemporanei, si ha l’impressione che Gilberto di Tournai prenda di mira i re capetingi, che fino a Filippo Augusto hanno avuto una vita matrimoniale alquanto agitata, scontrandosi con la chiesa su problemi di divorzio, concubinaggio e incesto (nel senso delle proibizioni ecclesiastiche al matrimonio fra parenti fino al quarto, se non addirittura al settimo grado e, forse, nel suo significato attuale per i casi anteriori a Carlomagno). È proprio di poligamia, infatti, che dobbiamo parlare e Georges Duby ha mostrato come solo nel XII secolo la chiesa abbia cominciato a imporre il proprio modello matrimoniale, monogamico e indissolubile, sul modello aristocratico, poligamico e rescindibile da parte dello sposo.
Il commentario sui tesori d’argento e d’oro fornisce l’occasione per un approccio a quello che potremmo chiamare il campo economico. L’economia monetaria e le varie pratiche (che vanno dalla tesaurizzazione alle manipolazioni delle monete) sono state una delle vie grazie alle quali ci si è resi conto che la moneta è uno strumento di dominio specifico del potere e del governo.
Nel 1259 (senza che ci sia nessun legame diretto) sono ormai prossime le decisioni di san Luigi in campo monetario: conio dei grossi d’argento, ripresa del conio dell’oro, lotta contro la monetazione dei baroni.
Attraverso l’obbligo della lettura del Deuteronomio imposto al sovrano, Gilberto di Tournai riprende e sviluppa l’adagio di Giovanni di Salisbury "re illetterato, asino coronato". Nella Francia di Luigi IX, nella cristianità dominata dalle università, non è più sufficiente che il re sia saggio, deve essere "colto". Sarebbe augurabile che fosse egli stesso un intellettuale.
Il capitolo successivo ricorda il ruolo dei chierici in un sistema monarchico. Il re deve onorare, proteggere, ascoltare la chiesa. Il giuramento da lui prestato all’atto della sua consacrazione è innanzitutto destinato a soddisfare i vescovi e i preti. La logica dell’accrescersi del potere regale porta alla diminuzione del peso della chiesa. Nella Francia del 1259 è il momento della ricerca di un equilibrio fra questa e il sovrano. Il re è il braccio secolare di Dio e della chiesa, è il garante della fede, è il re cristianissimo, ma non si lascia guidare dalla chiesa specialmente in ciò che concerne gli affari temporali. Il sistema di governo di Luigi IX ne è una chiara dimostrazione.
I confratelli degli ordini mendicanti domenicano e francescano, vicinissimi a san Luigi, esaltano quest’equilibrio. Bisogna far fronte comune per combattere innanzi tutto gli eretici e, eventualmente, gli infedeli (e il comportamento del sovrano in Egitto e in Terrasanta mostra chiaramente che egli intende unire allo spirito di crociata lo spirito missionario caro agli ordini mendicanti). Per Gilberto di Tournai, in queste alte sfere del potere il peccato mortale numero uno resta pur sempre la superbia, l’orgoglio. L’avaritia, la cupidigia che, malgrado la lezione sul disprezzo che si deve mostrare nei confronti dei tesori, tende a soppiantarla nella gerarchia dei vizi, costituisce per il re una minaccia secondaria. La fiscalità regia è ancora tollerabile.
Tre sono infine le preoccupazioni che devono dominare la mente e l’azione del re: 1) egli deve procedere diritto, non deviare, seguire la via della rettitudine; 2) deve meritare di avere una progenie e di vivere a lungo. Degli eredi, una lunga vita: ecco delle garanzie di stabilità per un buon governo; 3) il re non deve solamente uscire da un’elezione divina confermata da una sacra unzione. Deve assicurare la sua salvezza e quella del suo popolo. L’orizzonte monarchico è il paradiso. Un vero re deve essere un re escatologico. San Luigi sarà via via sempre più ossessionato da questa vocazione regale.
La seconda lettura tratta della disciplina dei grandi e degli ufficiali (cioè dei nobili della cerchia del sovrano e dei funzionari regi). Anche essa si fonda su una contrapposizione: la disciplina negativa, quella che il principe deve imporre alle cattive inclinazioni di quanti lo servono, e quella positiva, i doveri di quanti agiscono in nome del re. I re devono prima correggere, cioè adempiere al loro compito di braccio secolare. Il principe deve quindi essere un modello per quanti da lui dipendono. Gilberto di Tournai riprende qui la metafora organicista: il sovrano deve agire come la testa nei confronti delle membra. Da lui devono partire le onde positive che si diffonderanno in tutto quanto il corpo della monarchia. Ma il re deve anche saper rientrare in sé per contemplare lo spettacolo della società "nello specchio del suo spirito". In esso scoprirà gli abissi del male. Gilberto attribuisce infatti una grande importanza alla rivelazione di ciò che è nascosto, specialmente il male. Il re deve essere un investigatore del male, un inquisitore.
Fra i mali da scoprire e correggere, ci sono innanzi tutto quelli legati alla città e agli abusi popolari. In un periodo in cui, sul finire di una grande ondata di urbanizzazione, le città sono in genere lodate e ammirate, Gilberto si rivela pessimista nei loro confronti.
In esse allignano i peccati peggiori che non altrove. Più o meno contemporaneamente, il ministro generale del suo ordine, san Bonaventura, affermerà vigorosamente le stesse cose e in base a ciò concluderà che i francescani devono insediarsi soprattutto nei luoghi in cui più gravi sono i mali da combattere. Il principe deve anche riformare le leggi. Ve ne sono di buone, come pure di cattive. Gilberto di Tournai avvia i prìncipi sulla via del topos che fiorirà nel Trecento, soprattutto in Italia: il Buon Governo e il Cattivo Governo che Ambrogio Lorenzetti affrescherà sulle pareti del Palazzo comunale di Siena.
Gli ultimi undici capitoli di questa prima parte sono dedicati alle figure più detestabili della cerchia regale, i curiales, gli uomini della curia, la corte insomma. Questo termine non va inteso nel senso signoriale e cerimonale che esso assumerà a partire dal cinquecento. La curia è il luogo dell’apparato governativo e amministrativo di un sovrano feudale che sta sviluppando l’idea e gli organi di uno Stato centralizzato e burocratico. In questa descrizione critica dei curiales, Gilberto ha talora fatto ricorso a uno dei grandi sistemi di "moralizzazione" del duecento: il confronto con gli animali. Qui, accanto alla Bibbia, ai padri e ad alcuni antichi scrittori pagani, appariva come punto di riferimento un quarto campo, la natura. I suoi animali, le sue piante, i suoi fiori, le sue pietre sono la prefigurazione e il simbolo delle virtù e dei vizi degli umani. In primo luogo l’adulazione e l’ipocrisia, vittime di questi paragoni con gli animali. In merito al comportamento dei curiales Gilberto di Tournai ricorda il camaleonte e il millepiedi, i serpenti e gli animali velenosi, il leopardo.
La seconda parte di questa lettera espone positivamente la disciplina dei potenti e dei funzionari. All’origine del buon comportamento dei principi in questo campo deve esserci la ricerca della bona fama, elemento importantissimo nel medioevo, anche sul piano giuridico. Questo desiderio fa nascere nel principe la giustizia e la disciplina. La giustizia è l’argomento principale dei dieci capitoli di questa seconda parte. Gilberto di Tournai ricorda che essa deve essere uguale per tutti, che la spada del giudice è al suo servizio.
Il principe giusto deve proibire i giuramenti illeciti, reprimere l’ingiustizia dei cittadini, dei borghesi nei confronti dei chierici e dei deboli (nel duecento, questa è una delle chiavi della politica dei re di Francia nei confronti delle città). Egli deve innanzi tutto sorvegliare e punire quando è necessario i suoi "prefetti" e i suoi "balivi" (è questo il significato delle numerose inchieste che san Luigi avviò per riparare agli errori dei suoi rappresentanti). Infine, il principe deve frenarsi egli stesso, evitare gli abusi della giustizia regia nei confronti del povero e assicurargli questa giustizia.
La terza lettera del trattato di Gilberto di Tournai, consistente di sette soli capitoli, tratta del comportamento del re nei confronti dei sudditi. Egli deve loro amore e protezione. Gilberto lo dimostra innanzi tutto con esempi desunti dalla natura. Queste lesioni vengono tratte dai rettili, dai volatili (soprattutto le api) e dai mammiferi marini (delfini e foche). La gallina, infine, è una madre modello che si sacrifica per i suoi pulcini. Verso i sudditi, il re deve saper essere clemente (i luoghi comuni della moderazione e della misericordia sono al centro dell’etica principesca del duecento) perché la clemenza non indebolisce la giustizia. Inoltre, egli deve esser più severo nei riguardi delle ingiustizie fatte agli altri piuttosto che verso quelle perpetrate nei suoi confronti. Se sarà buono con il suo popolo, il re non ci rimetterà, al contrario. Il più saldo bastione dei sovrani è l’amore del loro popolo. Quest’amore è la miglior garanzia della più alta finalità della politica: vale a dire, la pace.
Gli "strati" storici e culturali che costituiscono la base e una gran parte del trattato di Gilberto di Tournai sono: 1) la Bibbia — specie il vecchio testamento, molto vivo, molto presente nel duecento; 2) la tradizione degli specula principum, profondamente segnata dalla svolta determinata alla metà del XII secolo dal Policraticus di Giovanni di Salisbury e dall’Institutio Traiana; 3) la cultura pagana ammessa dalla cultura cristiana, nel caso particolare profondamente arricchita dalla "rinascita" del XII secolo. Ma il fondo ideologico di questo trattato è il De coelesti hierarchia dello Pseudo-Dionigi.
Modelli storici per la monarchia
Dopo aver profondamente penetrato il pensiero teologico culturale e politico dell’alto medioevo, gli scritti di questo teologo greco, che risalgono alla fine del IV o ai primi del V secolo, tradotti in latino nel IX e anche dopo, continuano ad avere una grande influenza nel duecento. Essi vengono letti e commentati all’università di Parigi. Di questo pensiero, che impone la gerarchia celeste come modello alla gerarchia terrena, s’impadronisce la riflessione teologico-politica sulla monarchia. Il trattato di Gilberto di Tournai che, in ultima analisi, prende a modello i Serafini e le Dominazioni, ne è una delle migliori testimonianze.
Infine, l’Eruditio regum et principum abbozza una storia della regalità attraverso exempla e auctoritates. Due sono le serie di modelli storici su cui si fonda (sia in positivo che in negativo) la monarchia medievale: quella biblica e quella antica, soprattutto romana, imperiale e quindi delle origini della cristianità. Del medioevo, eccezion fatta per san Luigi, non è citato nessun esempio, tranne uno. Nel V capitolo della seconda parte della prima lettera, nel commentario del Deuteronomio, a proposito dei re "letterati", dopo aver citato David, Ezechia e Giosia da un lato, Costantino, Teodoro, Giustiniano e Leone dall’altro, Gilberto di Tournai scrive: "Aggiungiamo il pio e sempre augusto cristianissimo e invincibile principe Carlomagno, vostro predecessore, la cui memoria è benedetta".
Quale testimonianza della forza dell’immagine di Carlomagno e dell’importanza della campagna capetingia per rivendicare la continuità dal grande imperatore a san Luigi! Carlomagno è quindi il legame fra l’antichità e il presente. Ma, nel trattato, esiste questo presente aldilà della dedica e dei riferimenti sottesi a certe situazioni contemporanee? Gli specula principum, di solito, sono un genere al di fuori della storia.
Il trattato di Gilberto di Tournai contiene un capitolo sorprendente e senza eguali in altri specula principum: si tratta del secondo capitolo della seconda parte della prima lettera. L’intera frase del Deuteronomio, "Ed egli [il re] non ricondurrà in Egitto il suo popolo", viene ad essere commentata dalla prigionia di san Luigi in Egitto, un evento che risale a soli dieci anni prima della redazione del trattato, un evento dunque contemporaneo". Il contenuto non è molto interessante: san Luigi infatti, nonostante il riferimento, vi viene lodato per lo zelo religioso, mentre lo scacco della crociata è imputato ai vizi del popolo e soprattutto all’esercito francese. Nuovo Mosè e come lui vittima del suo popolo, san Luigi non è entrato nella terra promessa. Quando il Cristo vorrà liberare la Terrasanta, lo farà di persona. Nonostante tutto, questo testo suona come un addio alla crociata. Non l’ascolterà san Luigi, che si accontenterà di sostituire l’Egitto con la Tunisia.
Per noi, la cosa più importante è quest’ingresso della storia contemporanea nel regno degli esempi. Nelle raccolte duecentesche di exempla notiamo questa stessa tendenza ad accordare una sempre maggiore importanza a quel che è accaduto nostris temporibus. Anche il principe si vede nello specchio.
Jacques Le Goff
Storia illustrata, n. 339, Febbraio 1986